La Rabatana

Rabatana è un quartiere di Tursi che deve il suo nome alla presenza dei Saraceni, che si installarono nella città all’incirca nel periodo 850-930 d.C. Il nome deriva infatti dall’arabo rabad, che significa borgo. Situato nella parte più alta dell’abitato, la Rabatana è circondata da valli e burroni, un quartiere silenziosissimo, un luogo di pace che poggia su un costone di timpa.

Facciamo la conoscenza di Salvatore Di Gregorio, che ha acquistato un’abitazione tipica nell’antico borgo. Con cura e pazienza si è dedicato alla pulizia della stessa, dopo anni di abbandono da parte dei tanti eredi, curandone l’anima e riportando alla luce le storie con cui questa casa si è nutrita per decenni.

Ha ritrovato alcuni oggetti: una piccolissima foto di una famiglia patriarcale tra le fessure di una parete; un’antichissima anfora di terracotta, attualmente oggetto di studio, che creano un forte legame con il passato, ancora presente. Conoscitore del territorio tursiano, ma non solo, Salvatore ha rinvenuto anche una serie di botroidi, particolari formazioni geologiche, che si formano per la deposizione di carbonato di calcio in sabbie e sedimenti pliocenici. Questi sassi vengono anche chiamati “pupazzi di pietra”, per la loro assomiglianza a piccole sculture antropomorfe. La casa di Salvatore è un bellissimo luogo dove perdersi, ascoltando i suoi racconti.

Nella parte più antica, oggi disabitata, si trova la chiesa di Santa Maria Maggiore, edificata nel Cinquecento sulla primitiva chiesa, costruita dai monaci basiliani nel IX secolo. La chiesa conserva vere e proprie opere d’arte tra le quali un trittico di fine ‘300 con al centro la Madonna col Bambino in trono, attribuita ad un autore fiorentino della scuola di Giotto. All’interno della cripta, decorata da splendidi affreschi, si può ammirare l’incantevole presepe in pietra scolpito attorno al 1550 dallo scultore Altobello Persio (1507-1593). È il risultato di un accurato lavoro attraverso il quale l’autore ha plasmato la materia per dare forma e colore alla Sacra Famiglia.

Basta allontanarsi un pò dalla Rabatana per imbattesi nel Convento intitolato a San Francesco D’Assisi è appartenuto all’ordine dei frati minori Osservanti. Una Bolla Papale riporta i natali della struttura al 1441, anche se al suo interno è stato ritrovato un affresco che risale al 1377. Il convento prosperò sin dall’inizio, ospitando cattedre di professori e diventando un centro culturale di enorme importanza.

Nel 1807 iniziano i primi sfortunati avvenimenti: un saccheggiamento, un incendio della biblioteca da parte dell’esercito francese di Napoleone Bonaparte e un violento terremoto nel 1857. La proprietà passò al demanio e di qui fino al 1894 divenne un cimitero. Per tutto il secolo successivo è stato oggetto di atti vandalici, a danno dei morti sepolti all’interno della chiesa, oltre che nei suoi pressi. Le ragioni che hanno spinto i responsabili a tali barbarie sono purtroppo solamente ipotizzabili.
Nel 1914 fu chiuso definitivamente ad esclusione della cappella e del campanile che vennero utilizzati fino agli anni ’60, nel giorno della festa di Sant’Antonio, durante la processione del 13 giugno.

Nonostante gli sfortunati eventi, nel 1991, grazie alla sua bellezza storica e architettonica, è stato dichiarato monumento nazionale dal ministro Ferdinando Facchiano, ma la il recupero di questo luogo sempre ancora molto lontano.

Se decidete di passare dalla Rabatana, cercate la bottega di Salvatore, vi parlerà dei segreti di questo luogo, sospeso fra spazio e tempo, custode di una civiltà perduta.


La famiglia a Cipro.

Oggi voglio raccontarvi del nostro viaggio a Cipro.

Sono passati alcuni mesi, ma parte del nostro cuore è ora lì.

L’isola di Cipro, pur trovandosi in medio oriente è un’isola europea, contesa tra due Stati, Grecia e Turchia. La parte sud è greca, la Repubblica di Cipro, al nord invece c’è il territorio occupato, dalla metà degli anni ’70, dalla Turchia, uno stato non riconosciuto dalla comunità internazionale. Seppur divisa, l’isola vive pacificamente con due culture, religioni, lingue, monete diverse e sa donare veramente tanto.

La divisione è ben visibile nella capitale Nicosia, la cosiddetta “linea verde”, che si può facilmente attraversare a piedi, passando dal check point, muniti di passaporto.

La parte greca di Nicosia è abbastanza moderna, il centro storico all’interno delle mura è un dedalo di vie che convergono in via Lidras, una lunga via pedonale piena di negozi e locali che porta al check point.

Prima di passare nella parte turca visitiamo il Museo Municipale Leventis dove sono esposti reperti archeologici, costumi, fotografie, ceramiche, mappe e dipinti che raccontano oltre 5.000 anni di storia di Nicosia. Il Museo ha una galleria dedicata a Caterina Cornaro, ultima regina di Cipro.

Tra difficoltà, insidie e congiure, Caterina governò Cipro, appena diciannovenne, per quindici anni finché, alla fine di febbraio 1489, non consegnò il regno, ereditato dal suo defunto consorte, nelle mani della Serenissima.

Il mito immortale di Caterina Cornaro è giunto fino ai giorni nostri anche grazie al corteo acqueo che ogni anno apre la Regata Storica di Venezia.

Oltrepassiamo il confine senza problemi, ma non nego di aver sentito un pò di tensione, quando mio figlio mi ha consigliato di usare il telefono in maniera discreta, poichè trattasi di una zona militarizzata, con alcune restizioni vigenti.

Tutto si placa oltrepassando la zona cuscinetto: qui le strade profumano di carne alla griglia, la gente ti avvolge con il suo vociare, il colore predominante è il giallo ocra degli edifici e il rosa acceso delle enormi bouganville. Subiamo il fascino dei mercati, delle bancarelle, piene di stoffe colorate.

Lasciamo questa parte di Nicosia troppo presto, ma con la promessa di ritornare quanto prima.

Passeggiando per la parte greca di Nicosia vi imbatterete nella bellissima chiesa di Panaghia Faneromeni, affacciata sull’omonima piazza, animata dai vari locali all’aperto. Allìinterno si possono osservare icone dorate e tanto bianco, testimonianza di uno stile misto tra chiesa romanica e neoclassica.

Ci troviamo a Cipro nella settimana pasquale, tra tradizioni secolari, un forte senso di comunità e celebrazioni che fondono spiritualità e gioia. Le Chiese sono addobbate magnificamente.

Lasciamo il centro cittadino e percorriamo le caratteristiche mura veneziane: una cinta circolare che racchiude sia la parte settentrionale che quella meridionale della città vecchia, costruita per tenere lontani dalla città gli invasori ottomani.  Le mura ospitano il Monumento alla Libertà (Monumento di Eleftheria), eretto nel 1973, che commemora la liberazione dal dominio britannico. Nella cinta muraria si aprivano tre porte ci accesso alla città, la porta più orientale e la meglio conservata è quella di Famagosta.

Cipro è una terra bellissima, di cui parlerò ancora. Ma è tempo di rientrare, Niko e Andry ci attendono a casa 🏡❤️.

Oriolo e Castroregio.

Nato come fortezza per difendersi dagli attacchi del popolo Saraceno, Oriolo è un piccolo borgo medioevale al confine con la Basilicata ai piedi del Pollino, in provincia di Cosenza. Si trova a 450 metri sul livello del mare e racchiude tra i suoi vicoli storie e piccole bellezze da scoprire: un castello, chiese e vecchi ruderi, oltre che leggende.

Simbolo incontrastato del borgo il suo Castello, che conserva intatta la struttura originaria, caratterizzata da due torri di guardia e il mastio attorno a cui si sviluppa l’intero corpo. Restaurato di recente, il castello è visitabile ed è sede di eventi e mostre presso i diversi ambienti che lo compongono: la Sala dei Banchetti, quella delle Udienze, il Salone delle Bandiere, gli ambienti militari e la preziosa Camera da Letto di Margherita Pignone del Carretto, con la cupola affrescata con un Trionfo di Apollo.

Il centro storico di Oriolo è davvero affascinante, grazie alla sua conservazione impeccabile e alla struttura medievale ancora intatta. Passeggiando si possono ammirare vari palazzi nobiliari e cappelle devozionali, costruite sia da famiglie influenti sia dall’Università del borgo.
Di fronte al castello sorge l’altro riferimento architettonico del borgo medievale, la splendida Chiesa Madre di San Giorgio. L’origine normanna dell’edificio è attestata dalla presenza dei due leoni monumentali posti a guardia dell’ingresso centrale e datati 1264. La chiesa custodisce due importanti reliquie, rispettivamente appartenute a San Giorgio e a San Francesco da Paola.

Il territorio di Oriolo è uno scrigno di sorprese nascoste, che talvolta emergono per caso, come accaduto in occasione di alcuni lavori di manutenzione che hanno riportato alla luce, a 5 m di profondità sotto l’abitato, i resti di un Convento Francescano del 1439. Abbiamo percorso il centro storico con un abitante del posto, tornato in paese con una missione: resituire alla comunità un pò di quello che lui ha ricevuto.

Con lui abbiamo esplorato il centro storico, una serie di antichi e bellissimi palazzi nobiliari ed il Museo della Civiltà Contadina, ascoltando quelle narrazioni orali che vengono tramandate e alle quali spesso si aggiungono particolari o anche stravolgimenti, ma dove si trova, alla fine quasi sempre, un fondo di verità.

Da Oriolo ci siamo spostati in cima a una delle terre più antiche e autentiche della Calabria, qui il tempo non ha fretta e la bellezza si misura con il silenzio. È Castroregio, borgo arbëresh incastonato tra rocce, cielo e vento, dove la storia cammina ancora tra i vicoli e la natura abbraccia ogni cosa. Dal belvedere lo sguardo attraversa vallate, segue le pieghe del terreno, accarezza le cime delle montagne, fino a toccare il blu del Mar Ionio.

Le tradizioni sono vive e lo senti passeggiando, ascoltando i pochi abitanti che convergono nel punto focale del paese.

Uno dei luoghi di maggior interesse è la Chiesa dedicata alla Madonna della Neve, risalente anch’essa al XVII secolo e di stile bizantino. Questa chiesa è una delle più antiche dell’intera Eparchia di Lungro.

Nella Calabria, in qualsiasi posto tu sia, senti il forte legale che c’è tra cielo, terra e mare.

Castello di Monteserico, Irsina e Tricarico. Basilica da amare.

La Basilicata è una delle regioni che amiamo, tutta da scoprire, terra di bellissimi paesaggi naturali, dove le tradizioni popolari regnano incontrastate.

Arrivare al castello 🏰 di Monteserico non è stato semplice, nonostante alcune indicazioni abbiamo percorso una strada abbastanza sconnessa, che aveva però in sé il fascino di essere la strada più solitaria di tutte, lungo una terra rarefatta, di case silenziose e sparse.

Il castello emerge solitario dai campi gialli. Una fortezza di epoca normanna, anche se alcune tracce fanno pensare a fondamenta più antiche. La costruzione conobbe il suo massimo splendore grazie a Federico II che amava soggiornare qui per la presenza di uccelli rapaci, che tanto adorava.

Meraviglioso è il panorama, con la valle che corre verso l’infinito.

Un’abitante di Genzano ci coinvolge con la sua narrazione evocativa di questi luoghi durante la Riforma agraria, l’assegnazione delle case coloniche e dei terreni che, però, non sortirono gli esiti sperati. L’isolamento dei poderi, la limitata o mancata costruzione di infrastrutture, di opere per l’irrigazione e la mediocre qualità di molti territori determinarono ben presto l’abbandono dei fondi assegnati con la conseguente emigrazione, che lasciò le case coloniche e i borghi rurali dimenticati nell’oblio. Quest’uomo sognatore e dall’animo nobile e’ ancora qui.

Ci spostiamo ad Irsina, che dalla sua posizione domina incondizionata su tutta la Valle del Bradano. Il nome Irsina è stato dato solo nel 1895, prima il paese si chiamava Montepeloso, dal greco plusos, terra fertile e ricca.

Il centro storico è costruito su uno sperone di roccia, circondato dalle antiche mura di cui sopravvivono due torri cilindriche e due porte: la Porta Maggiore e la Porta Lenazza. Anche qui come Matera si trovano abitazioni scavate direttamente nella pietra, un tempo semplici ricoveri e successivamente vere e proprie case-grotte in cui vivevano in promiscuità uomini e bestie. L’ingresso dalla Porta Maggiore ci porta in una piazzetta con un Belvedere affacciato sulla Valle del Bradano da cui è possibile abbracciare in un colpo d’occhio l’estensione dei seminativi che circondano il paese, di un giallo oro intenso.

Accanto a queste antiche abitazioni si incontrano anche eleganti palazzi signorili con stemmi ed epigrafi, testimoni del passato nobiliare della città. Molti di questi palazzi sono oggi nell’elenco dei luoghi del FAI, in attesa di essere valorizzati.

La Cattedrale della città risale al 988 ed è stata oggetto di più ricostruzioni. Molti sono gli elementi preziosi della chiesa, ma su tutti spicca la scultura di Santa Eufemiain pietra. Si presenta con una mano nelle fauci del leone come simbolo del martirio, mentre nell’altra sorregge un triplice monte sormontato da un castello che rappresenterebbe proprio Montepeloso. È un pezzo raro attribuito al Mantegna e giunto a Irsina grazie alla ricca donazione di un notaio originario di queste parti.

Da non perdere nella visita ad Irsina la cripta della Chiesa di San Francesco.

Si pensa che la Chiesa anticamente fosse un castello costruito da Federico II di Svevia, uno dei tanti sparpagliati fra Puglia e Basilicata. Non ci sono però prove a testimonianza di questa leggenda. La cripta conserva un bel ciclo di affreschi commissionati tra il 1370 e il 1373 ad artisti di scuola giottesca da Margherita D’Angiò e da sua figlia Antonia Del Balzo, futura regina di Sicilia (entrambe ritratte tra i personaggi affrescati).

La cappella è molto interessante sia per gli aspetti artistici, che testimoniano i molteplici influssi di scuola fiorentina, sia per le vicende storiche legate alla cripta, dal momento della fondazione alla riscoperta, avvenuta ai primi del ‘900, grazie allo storico Michele Janora e all’intervento della Contessa Margherita Nugent.

Su consiglio di un abitante di Irsina, ci dirigiamo verso Tricarico, per il raduno delle maschere Antropomorfe.

A differenza della maggior parte delle feste religioso-popolari, che in seguito sono state assorbite e trasformate dalla religione cristiana, questo evento si distingue per il mantenimento del suo spirito tipicamente pagano, che risuona potente tra le danze. Numerosi studiosi collegano questa festività alle antiche tradizioni dei Saturnali romani, ma è certo che le sue radici affondano ancor più profondamente nelle antiche celebrazioni legate alla fertilità dei campi. Con l’uso di colori vibranti e costumi sfarzosi, le comunità cercano simbolicamente di comunicare con la natura, invocando la vitalità dormiente che attende sotto il gelido mantello invernale. Il festival di Tricarico, da oltre 12 anni, si pone come punto di incontro di queste feste e riesce a richiamare gruppi di comunità sia italiani che esteri: Bolivia, Portogallo, Romania Spagna, Africa. Dalla nostra amata Puglia vi erano i gruppi di Sammichele di Bari, Corato e Lecce.

Addentrandoci per le vie di Tricarico, scopriamo l’importanza strategica di questo luogo e della sua Torre Normanna, punto più alto e più suggestivo della città, da cui era possibile osservare e controllare militarmente un territorio vastissimo.

Il centro storico custodisce dei tesori insospettabili, tra edifici di inestimabile valore e importanti manufatti. Nel nostro girovagare un abitante ci ha condotti alla Chiesa di Santa Chiara, una delle chiese più suggestive di tutta la collina materana, con un soffitto ligneo con intagli in oro zecchino ed una cappella completamente affrescata da Pietro Antonio Ferro, considerato uno dei più importanti artisti della Basilicata del 1600.

La Basilicata è una terra veramente bella, ancora poco assediata dal turismo, ideale per un viaggio nell’Italia più autentica, tra arte, storia e natura, a costi ancora economici.

Compleanno a Firenze

Non ci sono dubbi, viaggiare con il sole è il sogno di tutti, beccare un meteo super favorevole però non è sempre così facile. E questa volta temporali e cieli grigi hanno accompagnato il viaggio in Toscana.

Ci siamo armati di cappucci e ombrelli e abbiamo inziato la nostra esperienza in via della Scala, nel centro di Firenze, dove si trova l’Officina di Santa Maria Novella, un luogo quasi segreto che da fuori non si nota.

Tutto è inziato con i frati domenicani che, a partire dal 1221, iniziarono a coltivare, nel piccolo orto adiacente la chiesa di Santa Maria Novella, le erbe officinali che servivano per preparare i medicamenti, i balsami e pomate per la loro piccola infermeria.

Oltre ai prodotti curativi, i frati iniziano la vendita dei profumi, accessibili solo ai più ricchi e fu nientemeno che Caterina de’ Medici, nel 1533, a commissionare il suo profumo. Per lei fu creata un’acqua a base di essenze di agrumi, con una predominanza di bergamotto di Calabria, tutt’ora prodotta.

Gli ambienti sono molto suggestivi: i soffitti sono decorati con affreschi della prima metà dell’Ottocento, i pavimenti in marmo risalgono al 1840 e le stanze sono decorate con vasi originali del 1600. Un luogo veramente inebriante e magico.

Questa incredibile città offre sempre qualcosa di nuovo ed inaspettato, come i curiosi finestrini aperti dalle famiglie fiorentine, sulle facciate dei propri palazzi, per la vendita diretta del vino a fiaschi. Una tradizione iniziata a Firenze cinquecento anni fa, al tempo dei primi granduchi, e poi diffusa in tutta la Toscana anche grazie al “distanziamento sociale” ordinato dal granduca Ferdinando II per combattere la peste, nel 1630.

Una tregua metereologica ci consente di salire su una delle terrazze nel centro città. La splendida cupola della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, simbolo di Firenze, del Rinascimento e dell’umanesimo.

La bellezza da qua sù è amplificata.

Fu costruita tra il 1420 e il 1436 su progetto di Filippo Brunelleschi, come la fiamma di una candela, così da permettere alla struttura di elevarsi curvando in modo graduale. Per far sì che la cupola fosse autoportante l’architetto progettò una struttura molto simile a quella di una botte.

Nella lista dei luoghi insoliti da visitare, non può mancare Palazzo Medici Riccardi, la casa del Rinascimento, in cui hanno dimorato Cosimo il Vecchio e Lorenzo il Magnifico.

Queste mura hanno visto passare i più grandi artisti del tempo come Donatello, Botticelli, Benozzo Gozzoli, Paolo Uccello ma anche letterati e dotti. Era il 1444 quando Cosimo il Vecchio commissionò la realizzazione del palazzo, che sarebbe diventata la casa di famiglia.

Nel 1494, ci fu la cacciata dei Medici da Firenze e quel palazzo di recente costruzione, entrò a far parte delle proprietà del governo repubblicano. La storia è fatta di corsi e ricorsi ed infatti quando fu eletto il papa Leone X de’ Medici, la famiglia Medici si riappropriò dei propri averi, palazzo compreso.

Nel 1659 Ferdinando II de’ Medici cede il palazzo, dietro lauto compenso, al marchese Gabriello Riccardi che lo ampliò, lo ammodernò secondo il gusto barocco dell’epoca. Il palazzo, che prende il nome dal Ricciardi, è ricco di bellissime opere tra cui:

  • il grande affresco, di Luca Giordano, con l’Apoteosi dei Medici in quella che viene chiamata Sala degli Specchi;
  • la Cappella dei Magi affrescata da Benozzo Gozzoli nel 1459.

Poichè spesso la mia ricerca d’arte si focalizza nei palazzi, in un’immersione totale nella vita del tempo, piuttosto che nei musei in senso stretto, non potevano mancare gli appartamenti reali riaperti da poco al Palazzo Pitti.

Oggi Palazzo Pitti è sede di un meraviglioso complesso museale, di cui fanno parte: la Galleria Palatina e gli Appartamenti Reali; la Galleria d’Arte Moderna; il Tesoro dei Granduchi e il Museo della Moda e del Costume.

Edificato su commissione di un mercante e banchiere fiorentino di nome Luca Pitti, il palazzo fu acquistato da Cosimo I de Medici e divenne la nuova residenza ducale in cui si trasferì tutta la corte medicea.

Da allora tutte le famiglie regnanti vi hanno soggiornato: i Medici, i Lorena e infine i Savoia quando Firenze divenne capitale del Regno d’Italia

Attraversando la Galleria Palatina ti ritrovi ad ammirare una collezione straordinaria dei più grandi artisti del periodo rinascimentale e barocco, riuniti in un susseguirsi di sale ed emozioni:Raffaello, Botticelli, Filippo Lippi, Tiziano, Van Dyck, Caravaggio e Rubens.

Gli Appartamenti Reali sono un’armonia artistica e storica straordinaria: uno sfarzoso complesso di sale decorate e ammobiliate, dove risiedevano i membri delle famiglie regnanti, dai Medici ai Lorena, ai Savoia, con mobili provenienti dalle collezioni medicee, lorenesi e sabaude, dal Cinquecento all’Ottocento.

Ora immaginate di camminare in queste sale e di fantasticare sulla vita dei sovrani che per secoli hanno abitato questi ambienti.

Se siete in cerca di spazi suggestivi e diversi da visitare a Firenze, il quattrocentesco Palazzo degli Strozzini è sicuramente uno di questi, nella sua fusione tra cinema e libri. Il cinema Odeon proietta film dagli anni 20 del Novecento, ma oggi con una progetto innovativo al piano terra, dove decine di scaffali di libri, in cui è bellissimo perdersi, hanno preso il posto della platea.

Non poteva mancare un cremoso affogato al caffè in tazzina vintage bianca e blu, della gelateria Vivoli, diventato virale, a seguito di una campagna pubblicitaria del fotografo Sam Youkilis.

Questa giornata a Firenze è stata voluta fortemente così 🙂

Calabria on the road: 2° parte.

ll rientro in Puglia si colora ulteriormente raggiungendo Borgo Croce, una frazione di Fiumara (Reggio di Calabria), risorto grazie alla street art e all’amore dei paesani.

Il cambiamento parte dall’idea di Maria Grazia Chirico, valorizzare il borgo con i murales, in ricordo della madre appena scomparsa. L’idea piace ai concittadini che, nel 2020, intraprendono un lavoro volto a ridisegnare la bellezza sopita del borgo.

Le pareti delle abitazioni, non solo diventano tele per i murales ma anche pergamene su cui annotare e riprodurre antichi proverbi.

E’ domenica e le vie sono abitate da un silenzio surreale. Girovagando per il borgo, incontriamo la signora che realizza saponette con l’olio d’oliva. Racconta con nostalgia, di un tempo che fu, di un paese autosufficiente con l’allevamento e la macellazione del bestiame.

Oggi molti di loro sono anziani, privi di auto, ed attendono l’arrivo settimanale dei generi alimentari che prenotano nei paesi a valle. Ma nonostante le difficoltà hanno un compito comune: mantenere viva l’eredità di Borgo Croce.

Da borgo Croce ci spostiamo su Monte Sant’Elia di Palmi, un balcone, da paura, sospeso tra cielo e mare.

Un’antica leggenda calabro-sicula racconta della lotta vittoriosa di Sant’Elia col diavolo. Si narra che il Santo ogni giorno cercava di portare avanti la costruzione del Convento, ma il diavolo di notte diroccava le mura. Uno giorno il santo lo scaraventò, nel mare sottostante, su una roccia, dove sono ancora visibili le sue impronte. Altri aggiungono, che il demonio, vedendosi vinto, tornò a tentarlo, promettendogli che non l’avrebbe disturbato, purché gli avesse permesso di avere un suo rifugio, nel punto in cui il Santo (creduto debole eremita) avrebbe lanciato il bastone, a cui si appoggiava. Ma Sant’Elia miracolosamente lanciò il proprio bastone nell’estremo limite del mare visibile, cioè al posto di Stromboli. Il demonio fu costretto ad allocarsi in quel punto, eruttando ripetutamente lave, fumo, e scuotendo tutta questa regione, con frequenti terremoti e sinistri boati.

Ultima meta di questo viaggio on the road, la città simbolo della Calabria nel mondo, meta già nel settecento di aristocratici europei, nel loro Grand Tour: Tropea.

La leggenda vuole che il fondatore sia stato Ercole quando, di ritorno dalle battaglie delle Colonne d’Ercole (attuale Gibilterra), si fermò sulle coste del Sud Italia, e su questa rupe depositò i suoi trofei in latino trophaeum, da qui il nome della città Tropea.

Per la sua caratteristica posizione di terrazzo sul mare, Tropea ebbe un ruolo importante, sia in epoca romana, sia in epoca bizantina; molti sono i resti lasciati dal bizantini, come la chiesa sul promontorio o le mura cittadine (chiamate appunto “mura di Belisario”).

Il centro storico di Tropea è in alto, a circa 70 metri sul mare, in un dedalo di vicoli, stradine, chiese, palazzi nobiliari, terrazzi panoramici e incredibili scorci sul blu del mare che all’improvviso si aprono passeggiando.

Il Santuario di Santa Maria dell’Isola, detto anche Isola Bella, è uno dei gioielli di Tropea e di tutta la costa, sia per la sua posizione, su di uno scoglio a strapiombo davanti alle Isole Eolie, sia perché è uno di luoghi di culto più importanti della zona, ricco di leggende. Un tempo isolato dalla terra ferma, l’isolotto divenne un rifugio per eremiti, ma in seguito, a causa del terremoto del 1783 e dell’onda anomala che ne conseguì, l’isola si unì all’arenile tropeano.

Si racconta che nel paesello giunse una statua lignea della Vergine dall’oriente. Il popolo scese al lido e le più alte cariche decisero di custodire la statua all’interno di una grotta naturale, presente nella rupe. La statua, purtroppo, risultava troppo grande rispetto alla grandezza della nicchia, così si decise di segare le gambe. Questa decisione ebbe conseguenze nefaste sia per il falegname che per coloro che avevano dato il consenso.

Le leggende raccontano anche di miracoli avvenuti su un masso posizionato a metà delle scale di accesso al santuario. All’interno della chiesa è molto sempice e custodisce la Sacra Famiglia, realizzata nel ‘700. Queste statue vengono calate a spalla su di un peschereccio ogni anno per la processione della Madonna Assunta del 15 agosto.

Al tramonto eravamo nel giardino del Santuario: il sole dolcemente calava nel tirreno e nitidamente si scorgevano le isole di Vulcano, Stromboli e perfino l’Etna.

La bellezza di Tropea è innegabile, ma dopo aver assaggiato la semplicità di alcuni borghi, ascoltato le storie di chi è rimasto o ha deciso di ritornare, Tropea mi è sembrata troppo convertita alla vacanza di lusso, con strade che brulicano di insegne di B&B e di ristoranti, anzichè di storia.

A parte questa nota, il viaggio in Calabria è stato meraviglioso. Questo lembo di terra è entrato a pieno titolo tra i luoghi del cuore, per la l’accoglienza, per la storia, per i sapori, per la bellezza e per i suoi tramonti che difficilmente potremo dimenticare.

Calabria on the road: 1° parte

Abbiamo capito sin da subito che l’auto è il mezzo migliore e più comodo per visitare la Calabria. Per cui siamo partiti di buon ora alla scoperta di questa lingua di terra e dei suoi luoghi così paradisiaci, ancora poco valorizzati.

In questo articolo ripercorreremo le prime tappe del nostro on the road:

  • Castello di San Fili
  • Pentadattilo
  • Reggio Calabria
  • Scilla

Il percorso sino alla provincia di Reggio Calabria meritava una piccola sosta e così ci siamo fermati al Castello di San Fili. Il palazzo sorge su un promontorio, come una sentinella che da secoli osserva il mutare del tempo. Costruito tra il 1710 e il 1720 dal capitano Giuseppe Lamberti, si incastona perfettamente tra il cielo ed il mare e le ampie finestre del piano nobile offrono incantevoli vedute, trasformando ogni sguardo in un dipinto.

Dal Castello ci siamo diretti a Pentadattilo (che ha un racconto tutto suo-https://rondinelleinviaggiofamily.blog/2025/02/01/pentedattilo-alla-ricerca-della-felicita/) e siamo scivolati verso Reggio Calabria per “conoscere” i Bronzi di Riace, esposti al Museo Archeologico Nazionale. Ritrovati in mare nel 1972 da un sub romano, i Bronzi raffigurano due uomini nudi, giovani e forti, risalgono probabilmente al V secolo a.C.

Le due opere sono state a lungo al centro di una sorta di giallo archeologico: forse affondarono con una nave oppure furono gettate in mare, nel tentativo di alleggerire il carico e scongiurare un naufragio. Quest’ultima sembra l’ipotesi più attendibile, dato che nel luogo del ritrovamento non c’era traccia dei resti dell’imbarcazione e neppure di altri oggetti. I Bronzi sono diventati le statue-simbolo, l’espressione del concetto di bellezza sviluppatosi in Grecia, quella maschile, che si identificava con l’armonia di un corpo muscoloso, capace di esprimere forza, vigore e salute.

Per iniziare la nostra passeggiata a Reggio Calabria, dopo il museo, ci siamo recati al Lungomare Falcomatà, definito anche “il chilometro più bello d’Italia”. La bellezza di questo kilometro è leggendaria. La vista che qui si può ammirare sullo stretto di Messina, aulla Sicilia e sull’Etna lascia a bocca aperta. Lungo questo scorcio, che i reggini definiscono “le tre marine”, c’è la possibiltà di ammirare edifici, monumenti, piazzette, sculture e scavi archeologici, per conoscere un pò meglio la città. La passeggiata nella storia è resa più gradevole dal gelato di Cesare, una delle migliori gelaterie d’Italia, un famoso chioschetto verde situato qui da oltre 100 anni.

Ad impreziosire questo lembo di terra ci sono tre spledide sculture umanoidi dell’artista Rabarama, installate nel 2007, che danno le spalle alla villa, stile neo-liberty, come altri edifici ristrutturati/ricostruiti dopo il terremoto del 1908.

Non mancano gli affacci sul mare, fra questi la spettacolare Arena dello Stretto, monumento storico della città, fortemente ispirata a quella dell’antica tradizione magnogreca. All’estremità la statua bronzea della dea Athena, a difesa della città. Con un’ampia gradinata semicircolare, l’Arena si presta a eventi, manifestazioni teatrali, musicali e mostre fotografiche, come quella di Letizia Battaglia, che abbiamo avuto la fortuna di ammirare. L’artista ha immortalato la Sicilia come mai nessuno aveva osato.

Proseguiamo il nostro tour per Scilla, che fa parte della cosidetta Costa Viola, per via del colore che le acque assumono in determinate ore del giorno. Il fatto che questo borgo sia legato alla mitologia greca, più precisamente dall’Odissea di Omero, lo rende ancora più suggestivo. Scilla era una ninfa che aveva rifiutato l’amore di Glauco, il Dio marino, metà pesce e metà uomo. Questo, si rivolse alla maga Circe, innamorata di lui, per far cadere Scilla tra le sue braccia, ma Circe, invidiosa, la trasformò in un mostro marino con sei teste di cane. Da quel momento Scilla andò a nascondersi in una grotta dello stretto divorando e terrorizzando i malcapitati naviganti, inclusi i compagni di Ulisse.

Grotte, mostri marini e sirene sono le leggende per spiegare i mulinellli, gorghi e vortici nelle acque dello stretto di messina che rendevano difficile la navigazione delle fragili imbarcazioni di un tempo.

Tutta la costa è sovrastata dall’imponente Castello dei Ruffo, che sorge sulla rocca e che prende il nome del famoso mostro omerico. Il Castello fu dimora del Conte Paolo Ruffo, il quale dominò il feudo di Scilla dal 1523, difendendo il borgo dal Pirata Barbarossa. Da questa rocca si apre un suggestivo panorama sulle Isole Eolie e sulla costa siciliana.

Dalle spiagge di Scilla seguendo un piccolo percorso a piedi è possibile raggiungere Chianalea di Scilla, il pittoresco borgo di pescatori, completamente avulso dalla realtà che lo circonda. Le case di Chianalea sono costruite direttamente sugli scogli e sono separate da strette viuzze che chiamano verso il mare. Man mano che scendi l profumo del mare diviene intenso e gli scorci poetici.

La pesca rimane uno dei tratti caratteristici del borgo, nonché la sua attività principale, in particolare quella del pesce spada che continua a farsi con i “luntri”, le tipiche imbarcazioni a remi, o con le più moderne “passarelle”, barche a motore con l’antenna d’avvistamento.

In questo quartiere abbiamo avuto la fortuna di ascoltare le storie di pescatori, che abitano queste case quasi sospese sull’acqua, intenti a sistemare le loro reti. Scilla, insieme a Palmi e Bagnara erano famose per la pesca del pesce spada, che veniva tramandato di padre in figlio. Il pesce spada rappresentava anche un vanto della cucina locale. Ora però sono in pochi a proseguire questa tradizione. I ragazzi hanno fatto altre scelte e la normativa, la burocrazia ed i costi non aiutano i pochi che sono rimasti.

Nonostante queste considerazioni non del tutto rosee dell’economia, Chianalea è un gioiello che merita di essere visto almeno una volta della vita. Davanti alle case che si sposano con le acque puoi osservare, ascoltare, sognare un tempo perduto, che torna quotidianamente, portato dalle onde.

Pentedattilo: alla ricerca della felicità.

Capita di scoprire con gli anni che la felicità non è qualcosa che si trova, che non ha niente di dovuto, che è a tutti gli effetti qualcosa che si crea. E’ un concetto semplice che tendiamo a dimenticare perchè non siamo “allenati” a gestirla, a maneggiarla e a contenerla.

Vi raccontiamo il nostro viaggio in Calabria, tre giorni in cui siamo stati travolti da un’immensa fortuna, abbiamo conosciuto i custodi di un tempo, quello lento che governa le giornate, le conversazioni ed elogia la semplicità.

Tutto parte da un video-documentario sulla storia di Rossella, unica abitante di un paese, Pentedattilo, sconosciuto persino ad alcuni calabresi. Inizia la mia ricerca sul borgo, che si trova a pochi km da Reggio Calabria. Ad avvolgerlo un’imponente montagna rocciosa a forma di cinque dita, da cui deriva il suo nome. Le case sono perfettamente incastonate tra le rocce e custodiscono la memoria del borgo e le leggende che vi ruotano attorno.

Per secoli teatro di violente lotte feudali e devastanti terremoti, questo piccolo centro negli anni Settanta fu dichiarato inagibile e i suoi abitanti si trasferirono poco più a valle. Da allora è un “borgo fantasma”, raggiungibile a piedi da una stretta stradina di pietra che si snoda lungo il costone di roccia, tra pale di fichi d’India e cespugli di macchia mediterranea. 

Chi arriva qui, fa una passeggiata veloce, scatta due foto, compra una calamita e poi va via. Ma c’è molto di più, basta semplicemente stare in silenzio e questo vi parlerà.

Entrando nel borgo si incontra subito la bottega artigiana di Giorgio e di sua moglie e mentre ci perdiamo nel loro mondo colorato Giorgio ci racconta storie, leggende del paese ma anche della sua vita, dei suoi ruoli come attore.

A Pentedattilo non ci sono ristoranti, trattorie o cose simili, ma esistono luoghi genuini che profumano e sussurrano.

Abbiamo finalmente incontrato Rossella, e siamo stati suoi ospiti su una terrazza affacciata nel blu. Quello che è successo nelle due ore successive, per noi è stato semplicemente un privilegio: pranzare all’aperto, con una coppia di Cuneo (lei originaria di Reggio Calabria), gustare prodotti genuini, tutto in ascolto delle storie di ognuno, in totale condivisione.

E poi Rossella, la custode più preziosa di Pentedattilo. La sua storia è una di quelle storie raccontate nei documentari, perchè quando negli anni ’80 Rossella ha deciso di lasciare Viterbo e trasferirsi in Calabria, in questo borgo sperduto e disabitato, poteva sembrare davvero da pazzi. Per lei no, per Rossella tutto è avvenuto in modo naturale. E da allora non l’ha più lasciato, restituendo al borgo di Pentedattilo un’anima. Lo ha fatto lei, lo ha fatto chi ha aperto le botteghe artigiane, chi ha iniziato a fare ospitalità diffusa.

Ci racconta che all’inizio erano in tre nel paese e le campagne erano rigogliose e incontaminate. Ogni mattina camminava costeggiando le fiumare in cerca di erbe officinali. Le abbondanti piogge invernali e primaverili consentivano di irrigare i campi e abbeverare gli animali anche d’estate. Si addormentava cullata dal canto della fiumara, mentre l’acqua scorreva incessante. Ma in questi ultimi due anni il territorio si sta desertificando e nella stagione secca il piccolo orto di Rossella va avanti a fatica, pur garantendole la sussistenza.

Dopo il pranzo abbiamo raggiunto Maka, un ragazzo maliano che aiuta Rossella nel lavoro dei campi e nell’accudimento delle sue venti capre. La luce del tramonto è divenuta irresistibile, come tutto il paesaggio circostante.

Rossella nella sua scelta di vita ha trovato la propria “capacità” di creare felicità ed essere stati suoi ospiti è stato veramente un dono, che non dimenticheremo.

Pompei.

Complice uno spettacolo al teatro Verdi di Salerno, abbiamo deciso di tornare in Campania per due giorni.

Siamo arrivati di prima mattina a Pompei e abbiamo atteso che si formasse un gruppo di 10 persone per cominciare la nostra visita guidata. Impossibile visitare l’intero insediamento in poche ore, per cui si cerca di focalizzare l’attenzione su alcuni siti precisi.

Pompei è una delle destinazioni italiane più conosciute al mondo. Il suo Parco Archeologico, dal 1997 patrimonio Unesco, è una meta imprescindibile per chi vuole scoprire la maestosità e la ricchezza di una tipica città romana.

I primi insediamenti risalgono infatti all’età del Ferro. Da subito, Pompei s’impone come un importante polo commerciale del Mediterraneo, dotandosi in poco tempo di un sistema di fortificazioni, palazzi, templi e strutture pubbliche. L’epoca romana fu quella che consacrò Pompei come “residenza di villeggiatura” per i nobili patrizi.

Il 24 agosto del 79 d.C. Pompei venne completamente distrutta da un’eruzione lavica. La città fu completamente seppellita sotto uno strato di 3 metri di cenere e lapilli, una catastrofe di proporzioni gigantesche che colpì anche le aree circostanti come Ercolano.

Cercheremo di descrivere alcuni dei siti del parco visitati, in questa occasione:

1. Casa Ceii: particolari scene di caccia con animali selvatici sono dipinte sulla parete di fondo del giardino, oltre alla presenza di paesaggi egittizzanti con pigmei ed animali del Delta del Nilo.

Riproduzioni che suggeriscono il forte legame del proprietario della domus con il mondo egizio e con il culto di Iside particolarmente diffuso negli ultimi anni di vita di Pompei.

All’interno sono riproposti parte degli allestimenti originari della dimora, con la risistemazione del tavolo in marmo e della vera di pozzo nell’atrio, in cui sono visibili i calchi di un armadio e della porta di ingresso.

Grandi spazi verdi, un lussuoso quartiere termale privato e vivide decorazioni, ci attendevano anche nel complesso dei Praedia di Giulia Felice.

2. Casa del Menandro: più che una casa è una enorme villa, di quasi 1800 m². La cosa inusuale è che il corpo centrale è stato costruito a un livello superiore rispetto a quello del cortile con il forno e i sotterranei e a quello dell’ergastulum, il quartiere riservato ai servi.

In un corridoio sotto il piccolo atrio della casa, nel 1930, gli archeologi addetti agli scavi rinvennero un tesoro straordinariamente ricco, per l’epoca archeologica a cui i beni si riferiscono, per i materiali di pregio con cui furono eseguiti, cioè oro e argento e per le capacità artistiche dei romani particolarmente in quel periodo. Il tesoro, per un totale di 84 kg, tra vasellame, oltre gioielli e monete, è conservato presso il Museo Nazionale Archeologico di Napoli.

3. Il Foro: è senza dubbio nel cuore pulsante della città. Gli antichi abitanti si recavano qui per accedere agli edifici principali della città e per partecipare alle manifestazioni religiose.

4. Le lupanare. Pompei è conosciuta anche come la città del vizio. Infatti, i pompeiani non presentavano problemi a ostentare le loro passioni e spesso le case erano dotate di stanze segrete dove le schiave esaudivano i desideri dei ricchi romani. L’edificio più conosciuto era il Lupanare: un edificio di due piani, ciascuno con 5 celle, ognuna fornita di un giaciglio di pietra su cui venivano sistemati dei materassi. La cosa curiosa è che il percorso per la struttura era indicato nelle vie della città da segnali a forma di fallo.

5. Villa dei Misteri: collocata in un’area più esterna del sito, si trova una delle ville patrizie più famose del posto, probabilmente la dimora di Livia, moglie dell’Imperatore Augusto.

Nella stanza del Triclinio, figure a grandezza naturale sono impegnate nei preparativi di un rito, ancora poco chiaro. Alcuni sostengono si tratti di un rito dionisiaco, altri semplicemente di un matrimonio. La Villa include anche una struttura termale e stanze suddivise per ambienti di servizio e residenziali.

6. Calchi: una delle testimonianze più eclatanti di tutto il sito archeologico, sono i 13 corpi rinvenuti ( per la precisione calchi in gesso) che cercavano di salvarsi dalla terribile eruzione del Vesuvio. Una testimonia drammata degli ultimi attimi di vita degli abitanti di Pompei.

I corpi sono rimasti sepolti in 9 metri di cenere per oltre 1900 anni! Nel 1863 il direttore degli Scavi, venne avvertito dagli operai che avevano incontrato una cavità, in fondo alla quale si scorgevano delle ossa. Ordinò che si arrestasse il lavoro, fece stemperare del gesso, che venne versato in quella cavità. Grazie alla tecnica utilizzata è stato possibile ricreare quel corpo all’interno della cavità e vedere le espressioni angosciate e addolorate di uomini, donne e bambini. Con questi calchi Pompei rivive la tragedia, un fermo immagine degli ultimi momenti di vita di un’intera popolazione.

Pompei non smette mai di sorprendere. Ogni anno, nuove scoperte aggiungono un tassello al mosaico della conoscenza ed è sempre affascinante ritornare. Dopo tutto si tratta della nostra storia 🙂

50 sfumature di verde: laghi di Monticchio.

Immagina di passeggiare nella natura e che questa, silente e placida, si rispecchi nel lago. Immagina che il lago sia la bocca di un antico vulcano spento. Immagina poi pioppi, cerri, faggi e roveri alti, dai tronchi enormi sotto i quali ti senti piccolissimo. Immagina una abbazia eretta su una grotta e foglie scricchiolanti sotto le scarpe.

Non serve immaginare se sei ai laghi di Monticchio.

Così una domenica di ottobre decidiamo di raggiungere L’Abbazia di San Michele, situata sul Monte Vulture.

L’antichissimo culto dell’Arcangelo Michele fu importato in Italia meridionale dai Longobardi che, spintisi fin qui, fondarono i principati di Benevento e di Salerno erigendo in questo territorio numerose chiese consacrate alla devozione del Santo. La grotta naturale, a picco sul lago, fu consacrata a luogo di culto dato che, secondo la tradizione, qui l’Arcangelo Michele apparve più volte alle popolazioni. Anni dopo, nella grotta dell’Arcangelo iniziarono a riunirsi prima i Monaci Basiliani, in fuga dalla dottrina della Chiesa Bizantina, poi i Benedettini, per frenare l’espansione della chiesa ortodossa. Questi ultimi fecero edificare l’abbazia, abbandonandola poi nel 1456. Ci fu un tempo, dunque, in cui a Monticchio convivevano, due ordini di fede, molto diversi per riti e principi dogmatici. Solo dopo l’affermazione politica e militare dei Normanni, i Basiliani abbandonarono gradualmente il Vulture e e l’Abbazia passò ai Cappuccini, che fondarono una biblioteca e un lanificio.

Oggi, il complesso abbaziale si articola su più piani, con la chiesa settecentesca e l’antichissima cappella di S. Michele, appoggiata al suolo roccioso della primitiva grotta, in cui vi sono numerosi affreschi di epoca bizantina e medievale. All’Abbazia si accede percorrendo un sentiero petroso immerso nella foresta di faggi e lecci e dalle sue finestre si gode di un bellissimo panorama sui laghi sottostanti.

Intorno ai laghi vi sono numerosi sentieri. Noi avendo poco tempo a disposizione abbiamo percorso quello attiguo all’Abbazia, che in 20 minuti porta al belvedere.

La vista che si gode a questa altezza non è priva di inconvenienti per chi soffre di vertigini, ma è ad ogni modo incantevole. Così abbiamo steso una tovaglia e ci siamo rilassati in un dolce picnic.

Il sentiero non è molto tracciato, infatti c’è stato un attimo in cui abbiamo messo in dubbio la possibilità di avanzare, per alcuni tronchi caduti di recente che ostacolavano la salita. Il terreno inoltre non è molto compatto, per cui nella discesa questo spesso franava un pò, sotto i nostri passi. Ma niente di preoccupante. Arrivati nuovamente all’Abbazia abbiamo intrapreso il percorso naturalistico che porta giù al lago piccolo.

I Laghi di Monticchio sono parte di una Riserva Regionale della Basilicata, una zona naturalistica molto piacevole da visitare. Si tratta di due laghi, sorti occupando l’area di due antichi crateri di quello che un tempo era un vulcano, circondati da una natura verdeggiante ed incontaminata.

Per godere dell’oasi di pace abbiamo noleggiato un pedalò dalla banchina del Lago Piccolo e siamo rimasti sospesi in quelle acque dalle 50 sfumature di verde.

Il tempo sembra fermarsi ❤️.

L’Abbazia si vede in tutto il suo splendore, aggrappata alla parete della montagna, bianca, imponente, elegante, incastonata nella parete del monte, che sovrasta i laghi, e in questi si riflette giocando con le nuvole.

Una bellissima passeggiata autunnale che consiglio a tutti.

Prima del rientro non poteva mancare una visita al Castello di Melfi, che al suo interno ospita l’interessantissimo Museo Archeologico Nazionale.

La Basilicata fu una terra che Federico II apprezzò molto e in cui soggiornava spesso per le sue amate battute di caccia. Il Castello di Melfi, sebbene sia stato costruito dai suoi predecessori normanni, divenne fulcro dell’attività amministrativa del suo regno, per poi diventare dei Doria fino al 1950 e poi di proprietà dello stato italiano.
La struttura ha una unica entrata agibile con un ponte che dà sul vasto fossato. Una volta ammirata la maestosità del castello si può accedere al museo, con un ticket di 2,50 euro. Le sale del museo custodiscono numerosi reperti archeologici ritrovati nella zona del Vulture, in particolare corredi funerari di guerrieri e nobili. Lasciano davvero a bocca aperta, sia per lo sfarzo che regnava all’epoca tra le genti nobili, sia per l’importanza che si dava alla fase della sepoltura. Insomma una full immersion culturale nella splendida cornice del Castello di Melfi che vi emozionerà sicuramente.
La Basilicata è anche questo