La Rabatana

Rabatana è un quartiere di Tursi che deve il suo nome alla presenza dei Saraceni, che si installarono nella città all’incirca nel periodo 850-930 d.C. Il nome deriva infatti dall’arabo rabad, che significa borgo. Situato nella parte più alta dell’abitato, la Rabatana è circondata da valli e burroni, un quartiere silenziosissimo, un luogo di pace che poggia su un costone di timpa.

Facciamo la conoscenza di Salvatore Di Gregorio, che ha acquistato un’abitazione tipica nell’antico borgo. Con cura e pazienza si è dedicato alla pulizia della stessa, dopo anni di abbandono da parte dei tanti eredi, curandone l’anima e riportando alla luce le storie con cui questa casa si è nutrita per decenni.

Ha ritrovato alcuni oggetti: una piccolissima foto di una famiglia patriarcale tra le fessure di una parete; un’antichissima anfora di terracotta, attualmente oggetto di studio, che creano un forte legame con il passato, ancora presente. Conoscitore del territorio tursiano, ma non solo, Salvatore ha rinvenuto anche una serie di botroidi, particolari formazioni geologiche, che si formano per la deposizione di carbonato di calcio in sabbie e sedimenti pliocenici. Questi sassi vengono anche chiamati “pupazzi di pietra”, per la loro assomiglianza a piccole sculture antropomorfe. La casa di Salvatore è un bellissimo luogo dove perdersi, ascoltando i suoi racconti.

Nella parte più antica, oggi disabitata, si trova la chiesa di Santa Maria Maggiore, edificata nel Cinquecento sulla primitiva chiesa, costruita dai monaci basiliani nel IX secolo. La chiesa conserva vere e proprie opere d’arte tra le quali un trittico di fine ‘300 con al centro la Madonna col Bambino in trono, attribuita ad un autore fiorentino della scuola di Giotto. All’interno della cripta, decorata da splendidi affreschi, si può ammirare l’incantevole presepe in pietra scolpito attorno al 1550 dallo scultore Altobello Persio (1507-1593). È il risultato di un accurato lavoro attraverso il quale l’autore ha plasmato la materia per dare forma e colore alla Sacra Famiglia.

Basta allontanarsi un pò dalla Rabatana per imbattesi nel Convento intitolato a San Francesco D’Assisi è appartenuto all’ordine dei frati minori Osservanti. Una Bolla Papale riporta i natali della struttura al 1441, anche se al suo interno è stato ritrovato un affresco che risale al 1377. Il convento prosperò sin dall’inizio, ospitando cattedre di professori e diventando un centro culturale di enorme importanza.

Nel 1807 iniziano i primi sfortunati avvenimenti: un saccheggiamento, un incendio della biblioteca da parte dell’esercito francese di Napoleone Bonaparte e un violento terremoto nel 1857. La proprietà passò al demanio e di qui fino al 1894 divenne un cimitero. Per tutto il secolo successivo è stato oggetto di atti vandalici, a danno dei morti sepolti all’interno della chiesa, oltre che nei suoi pressi. Le ragioni che hanno spinto i responsabili a tali barbarie sono purtroppo solamente ipotizzabili.
Nel 1914 fu chiuso definitivamente ad esclusione della cappella e del campanile che vennero utilizzati fino agli anni ’60, nel giorno della festa di Sant’Antonio, durante la processione del 13 giugno.

Nonostante gli sfortunati eventi, nel 1991, grazie alla sua bellezza storica e architettonica, è stato dichiarato monumento nazionale dal ministro Ferdinando Facchiano, ma la il recupero di questo luogo sempre ancora molto lontano.

Se decidete di passare dalla Rabatana, cercate la bottega di Salvatore, vi parlerà dei segreti di questo luogo, sospeso fra spazio e tempo, custode di una civiltà perduta.


La famiglia a Cipro.

Oggi voglio raccontarvi del nostro viaggio a Cipro.

Sono passati alcuni mesi, ma parte del nostro cuore è ora lì.

L’isola di Cipro, pur trovandosi in medio oriente è un’isola europea, contesa tra due Stati, Grecia e Turchia. La parte sud è greca, la Repubblica di Cipro, al nord invece c’è il territorio occupato, dalla metà degli anni ’70, dalla Turchia, uno stato non riconosciuto dalla comunità internazionale. Seppur divisa, l’isola vive pacificamente con due culture, religioni, lingue, monete diverse e sa donare veramente tanto.

La divisione è ben visibile nella capitale Nicosia, la cosiddetta “linea verde”, che si può facilmente attraversare a piedi, passando dal check point, muniti di passaporto.

La parte greca di Nicosia è abbastanza moderna, il centro storico all’interno delle mura è un dedalo di vie che convergono in via Lidras, una lunga via pedonale piena di negozi e locali che porta al check point.

Prima di passare nella parte turca visitiamo il Museo Municipale Leventis dove sono esposti reperti archeologici, costumi, fotografie, ceramiche, mappe e dipinti che raccontano oltre 5.000 anni di storia di Nicosia. Il Museo ha una galleria dedicata a Caterina Cornaro, ultima regina di Cipro.

Tra difficoltà, insidie e congiure, Caterina governò Cipro, appena diciannovenne, per quindici anni finché, alla fine di febbraio 1489, non consegnò il regno, ereditato dal suo defunto consorte, nelle mani della Serenissima.

Il mito immortale di Caterina Cornaro è giunto fino ai giorni nostri anche grazie al corteo acqueo che ogni anno apre la Regata Storica di Venezia.

Oltrepassiamo il confine senza problemi, ma non nego di aver sentito un pò di tensione, quando mio figlio mi ha consigliato di usare il telefono in maniera discreta, poichè trattasi di una zona militarizzata, con alcune restizioni vigenti.

Tutto si placa oltrepassando la zona cuscinetto: qui le strade profumano di carne alla griglia, la gente ti avvolge con il suo vociare, il colore predominante è il giallo ocra degli edifici e il rosa acceso delle enormi bouganville. Subiamo il fascino dei mercati, delle bancarelle, piene di stoffe colorate.

Lasciamo questa parte di Nicosia troppo presto, ma con la promessa di ritornare quanto prima.

Passeggiando per la parte greca di Nicosia vi imbatterete nella bellissima chiesa di Panaghia Faneromeni, affacciata sull’omonima piazza, animata dai vari locali all’aperto. Allìinterno si possono osservare icone dorate e tanto bianco, testimonianza di uno stile misto tra chiesa romanica e neoclassica.

Ci troviamo a Cipro nella settimana pasquale, tra tradizioni secolari, un forte senso di comunità e celebrazioni che fondono spiritualità e gioia. Le Chiese sono addobbate magnificamente.

Lasciamo il centro cittadino e percorriamo le caratteristiche mura veneziane: una cinta circolare che racchiude sia la parte settentrionale che quella meridionale della città vecchia, costruita per tenere lontani dalla città gli invasori ottomani.  Le mura ospitano il Monumento alla Libertà (Monumento di Eleftheria), eretto nel 1973, che commemora la liberazione dal dominio britannico. Nella cinta muraria si aprivano tre porte ci accesso alla città, la porta più orientale e la meglio conservata è quella di Famagosta.

Cipro è una terra bellissima, di cui parlerò ancora. Ma è tempo di rientrare, Niko e Andry ci attendono a casa 🏡❤️.

Sulle sponde del Lao

Abbiamo trascorso una piacevole domenica autunnale nella Valle del Lao, alla scoperta di Laino Borgo e Papasidero, due Comuni del Parco Nazionale del Pollino, immersi nella valle.

Laino Borgo è incastonato come una gemma e si snoda in un dedalo di viuzze, affrescate da una serie di murales che raccontano squarci di vita vissuta, oggetti, prodotti tipici e simboli del Paese, in una sorta di book fotografico a cielo aperto.

Il territorio è attraversato dal fiume Lao che genera un canyon profondo di circa 200 metri, rendendo il paese uno dei punti di riferimento più importanti per il rafting in Calabria. Noi abbiamo intrapreso un trekking semplice, quasi sempre costeggiando il fiume, all’inseguimento degli avventurieri del rafting, prima che questi scomparissero all’interno della gola, ingoiati dalla potenza dell’acqua. Siamo rimasti seduti sulle rocce ad ammirare l’impetuosa corrente, ascoltando il suono fragoroso dell’acqua sulle rocce, che da millenni scolpisce questi luoghi.

Fino al XVI secolo Laino Borgo era annesso a Laino Castello e formavano un solo Comune denominato semplicemente “Laino”. In una sorte abbastanza tormentata i due borghi sono stati unificati e divisi più volte a seconda delle situazioni politiche che si avvicendavano. Un’evoluzione storica che è terminata nel dopoguerra, precisamente a ottobre del 1947, con la loro scissione definitiva. 

La parte più caratteristica di Laino Castello è il suo centro storico arroccato sul colle S. Teodoro sulla cui sommità spicca il Castello Feudale: “CastrumLayni ” costruito dai Longobardi come luogo di difesa contro il nemico bizantino, divenuto, successivamente, il capoluogo di uno dei sette Gastaldati più importanti dell’Italia Meridionale. Posto su uno sperone di roccia sul punto più alto del colle, di cui oggi esistono i ruderi con bastioni speronati a torretta, adibito a cimitero comunale, gode di uno scenario incantevole e domina tutta la valle al fondo della quale scorre il fiume Lao. Qui la natura regna incontaminata.

Lasciamo Laino Castello e procediamo verso Papasidero. Raggiungiamo, dopo centinaia di curve, la Grotta del Romito, localizzata all’interno di uno stretto canyon che offriva protezione e riparo. Qui, un giorno un pastore, trova incisa su una pietra, la raffigurazione di un Uro (Bos primegenius), il più importante capolavoro figurativo che l’attività artistica del Paleolitico ha lasciato in Italia Meridionale

Correva l’anno 1961 e la notizia del toro sulla roccia si sparge velocemente, Paolo Graziosi, professore di archeologia e paleontologia all’Università di Firenze, organizza subito una missione studio. Il toro viene completamente portato alla luce e appare nella sua interezza: l’artista paleolitico aveva raffigurato con grande naturalismo il muso con le corna, l’arco del dorso, la coda e le zampe con gli zoccoli. Il tutto inciso a bulino.

L’importanza di Papasidero a livello europeo è legata alla presenza di evidenze paleolitiche, arte rupestre, sepolture (9 individui in tutto), reperti che coprono un arco temporale compreso tra 23.000 3 10.000 anni fa, ed hanno consentito la ricostruzione delle abitudini alimentari, della vita sociale e dell’ambiente dell’Homo Sapiens.

Ultima tappa di questo bel viaggio in Calabria, la chiesa di Santa Maria di Costantinopoli a Papasidero che sebbene sia stata ricostruita nel XVII secolo, testimonia ancora la presenza dei monaci bizantini, detti basiliani per distinguerli dai monaci di osservanza benedettina.

La sua architettura è una fusione armoniosa di storia e sacralità che si staglia maestosa e si fonde con l’ambiente circostante, abbracciato dal dolce riecheggio delle limpide acque del fiume Lao.

La Calabria riesce a placare la mia ricerca di bellezza nella natura e nei borghi.

Oriolo e Castroregio.

Nato come fortezza per difendersi dagli attacchi del popolo Saraceno, Oriolo è un piccolo borgo medioevale al confine con la Basilicata ai piedi del Pollino, in provincia di Cosenza. Si trova a 450 metri sul livello del mare e racchiude tra i suoi vicoli storie e piccole bellezze da scoprire: un castello, chiese e vecchi ruderi, oltre che leggende.

Simbolo incontrastato del borgo il suo Castello, che conserva intatta la struttura originaria, caratterizzata da due torri di guardia e il mastio attorno a cui si sviluppa l’intero corpo. Restaurato di recente, il castello è visitabile ed è sede di eventi e mostre presso i diversi ambienti che lo compongono: la Sala dei Banchetti, quella delle Udienze, il Salone delle Bandiere, gli ambienti militari e la preziosa Camera da Letto di Margherita Pignone del Carretto, con la cupola affrescata con un Trionfo di Apollo.

Il centro storico di Oriolo è davvero affascinante, grazie alla sua conservazione impeccabile e alla struttura medievale ancora intatta. Passeggiando si possono ammirare vari palazzi nobiliari e cappelle devozionali, costruite sia da famiglie influenti sia dall’Università del borgo.
Di fronte al castello sorge l’altro riferimento architettonico del borgo medievale, la splendida Chiesa Madre di San Giorgio. L’origine normanna dell’edificio è attestata dalla presenza dei due leoni monumentali posti a guardia dell’ingresso centrale e datati 1264. La chiesa custodisce due importanti reliquie, rispettivamente appartenute a San Giorgio e a San Francesco da Paola.

Il territorio di Oriolo è uno scrigno di sorprese nascoste, che talvolta emergono per caso, come accaduto in occasione di alcuni lavori di manutenzione che hanno riportato alla luce, a 5 m di profondità sotto l’abitato, i resti di un Convento Francescano del 1439. Abbiamo percorso il centro storico con un abitante del posto, tornato in paese con una missione: resituire alla comunità un pò di quello che lui ha ricevuto.

Con lui abbiamo esplorato il centro storico, una serie di antichi e bellissimi palazzi nobiliari ed il Museo della Civiltà Contadina, ascoltando quelle narrazioni orali che vengono tramandate e alle quali spesso si aggiungono particolari o anche stravolgimenti, ma dove si trova, alla fine quasi sempre, un fondo di verità.

Da Oriolo ci siamo spostati in cima a una delle terre più antiche e autentiche della Calabria, qui il tempo non ha fretta e la bellezza si misura con il silenzio. È Castroregio, borgo arbëresh incastonato tra rocce, cielo e vento, dove la storia cammina ancora tra i vicoli e la natura abbraccia ogni cosa. Dal belvedere lo sguardo attraversa vallate, segue le pieghe del terreno, accarezza le cime delle montagne, fino a toccare il blu del Mar Ionio.

Le tradizioni sono vive e lo senti passeggiando, ascoltando i pochi abitanti che convergono nel punto focale del paese.

Uno dei luoghi di maggior interesse è la Chiesa dedicata alla Madonna della Neve, risalente anch’essa al XVII secolo e di stile bizantino. Questa chiesa è una delle più antiche dell’intera Eparchia di Lungro.

Nella Calabria, in qualsiasi posto tu sia, senti il forte legale che c’è tra cielo, terra e mare.

Calabria on the road: 1° parte

Abbiamo capito sin da subito che l’auto è il mezzo migliore e più comodo per visitare la Calabria. Per cui siamo partiti di buon ora alla scoperta di questa lingua di terra e dei suoi luoghi così paradisiaci, ancora poco valorizzati.

In questo articolo ripercorreremo le prime tappe del nostro on the road:

  • Castello di San Fili
  • Pentadattilo
  • Reggio Calabria
  • Scilla

Il percorso sino alla provincia di Reggio Calabria meritava una piccola sosta e così ci siamo fermati al Castello di San Fili. Il palazzo sorge su un promontorio, come una sentinella che da secoli osserva il mutare del tempo. Costruito tra il 1710 e il 1720 dal capitano Giuseppe Lamberti, si incastona perfettamente tra il cielo ed il mare e le ampie finestre del piano nobile offrono incantevoli vedute, trasformando ogni sguardo in un dipinto.

Dal Castello ci siamo diretti a Pentadattilo (che ha un racconto tutto suo-https://rondinelleinviaggiofamily.blog/2025/02/01/pentedattilo-alla-ricerca-della-felicita/) e siamo scivolati verso Reggio Calabria per “conoscere” i Bronzi di Riace, esposti al Museo Archeologico Nazionale. Ritrovati in mare nel 1972 da un sub romano, i Bronzi raffigurano due uomini nudi, giovani e forti, risalgono probabilmente al V secolo a.C.

Le due opere sono state a lungo al centro di una sorta di giallo archeologico: forse affondarono con una nave oppure furono gettate in mare, nel tentativo di alleggerire il carico e scongiurare un naufragio. Quest’ultima sembra l’ipotesi più attendibile, dato che nel luogo del ritrovamento non c’era traccia dei resti dell’imbarcazione e neppure di altri oggetti. I Bronzi sono diventati le statue-simbolo, l’espressione del concetto di bellezza sviluppatosi in Grecia, quella maschile, che si identificava con l’armonia di un corpo muscoloso, capace di esprimere forza, vigore e salute.

Per iniziare la nostra passeggiata a Reggio Calabria, dopo il museo, ci siamo recati al Lungomare Falcomatà, definito anche “il chilometro più bello d’Italia”. La bellezza di questo kilometro è leggendaria. La vista che qui si può ammirare sullo stretto di Messina, aulla Sicilia e sull’Etna lascia a bocca aperta. Lungo questo scorcio, che i reggini definiscono “le tre marine”, c’è la possibiltà di ammirare edifici, monumenti, piazzette, sculture e scavi archeologici, per conoscere un pò meglio la città. La passeggiata nella storia è resa più gradevole dal gelato di Cesare, una delle migliori gelaterie d’Italia, un famoso chioschetto verde situato qui da oltre 100 anni.

Ad impreziosire questo lembo di terra ci sono tre spledide sculture umanoidi dell’artista Rabarama, installate nel 2007, che danno le spalle alla villa, stile neo-liberty, come altri edifici ristrutturati/ricostruiti dopo il terremoto del 1908.

Non mancano gli affacci sul mare, fra questi la spettacolare Arena dello Stretto, monumento storico della città, fortemente ispirata a quella dell’antica tradizione magnogreca. All’estremità la statua bronzea della dea Athena, a difesa della città. Con un’ampia gradinata semicircolare, l’Arena si presta a eventi, manifestazioni teatrali, musicali e mostre fotografiche, come quella di Letizia Battaglia, che abbiamo avuto la fortuna di ammirare. L’artista ha immortalato la Sicilia come mai nessuno aveva osato.

Proseguiamo il nostro tour per Scilla, che fa parte della cosidetta Costa Viola, per via del colore che le acque assumono in determinate ore del giorno. Il fatto che questo borgo sia legato alla mitologia greca, più precisamente dall’Odissea di Omero, lo rende ancora più suggestivo. Scilla era una ninfa che aveva rifiutato l’amore di Glauco, il Dio marino, metà pesce e metà uomo. Questo, si rivolse alla maga Circe, innamorata di lui, per far cadere Scilla tra le sue braccia, ma Circe, invidiosa, la trasformò in un mostro marino con sei teste di cane. Da quel momento Scilla andò a nascondersi in una grotta dello stretto divorando e terrorizzando i malcapitati naviganti, inclusi i compagni di Ulisse.

Grotte, mostri marini e sirene sono le leggende per spiegare i mulinellli, gorghi e vortici nelle acque dello stretto di messina che rendevano difficile la navigazione delle fragili imbarcazioni di un tempo.

Tutta la costa è sovrastata dall’imponente Castello dei Ruffo, che sorge sulla rocca e che prende il nome del famoso mostro omerico. Il Castello fu dimora del Conte Paolo Ruffo, il quale dominò il feudo di Scilla dal 1523, difendendo il borgo dal Pirata Barbarossa. Da questa rocca si apre un suggestivo panorama sulle Isole Eolie e sulla costa siciliana.

Dalle spiagge di Scilla seguendo un piccolo percorso a piedi è possibile raggiungere Chianalea di Scilla, il pittoresco borgo di pescatori, completamente avulso dalla realtà che lo circonda. Le case di Chianalea sono costruite direttamente sugli scogli e sono separate da strette viuzze che chiamano verso il mare. Man mano che scendi l profumo del mare diviene intenso e gli scorci poetici.

La pesca rimane uno dei tratti caratteristici del borgo, nonché la sua attività principale, in particolare quella del pesce spada che continua a farsi con i “luntri”, le tipiche imbarcazioni a remi, o con le più moderne “passarelle”, barche a motore con l’antenna d’avvistamento.

In questo quartiere abbiamo avuto la fortuna di ascoltare le storie di pescatori, che abitano queste case quasi sospese sull’acqua, intenti a sistemare le loro reti. Scilla, insieme a Palmi e Bagnara erano famose per la pesca del pesce spada, che veniva tramandato di padre in figlio. Il pesce spada rappresentava anche un vanto della cucina locale. Ora però sono in pochi a proseguire questa tradizione. I ragazzi hanno fatto altre scelte e la normativa, la burocrazia ed i costi non aiutano i pochi che sono rimasti.

Nonostante queste considerazioni non del tutto rosee dell’economia, Chianalea è un gioiello che merita di essere visto almeno una volta della vita. Davanti alle case che si sposano con le acque puoi osservare, ascoltare, sognare un tempo perduto, che torna quotidianamente, portato dalle onde.

Pompei.

Complice uno spettacolo al teatro Verdi di Salerno, abbiamo deciso di tornare in Campania per due giorni.

Siamo arrivati di prima mattina a Pompei e abbiamo atteso che si formasse un gruppo di 10 persone per cominciare la nostra visita guidata. Impossibile visitare l’intero insediamento in poche ore, per cui si cerca di focalizzare l’attenzione su alcuni siti precisi.

Pompei è una delle destinazioni italiane più conosciute al mondo. Il suo Parco Archeologico, dal 1997 patrimonio Unesco, è una meta imprescindibile per chi vuole scoprire la maestosità e la ricchezza di una tipica città romana.

I primi insediamenti risalgono infatti all’età del Ferro. Da subito, Pompei s’impone come un importante polo commerciale del Mediterraneo, dotandosi in poco tempo di un sistema di fortificazioni, palazzi, templi e strutture pubbliche. L’epoca romana fu quella che consacrò Pompei come “residenza di villeggiatura” per i nobili patrizi.

Il 24 agosto del 79 d.C. Pompei venne completamente distrutta da un’eruzione lavica. La città fu completamente seppellita sotto uno strato di 3 metri di cenere e lapilli, una catastrofe di proporzioni gigantesche che colpì anche le aree circostanti come Ercolano.

Cercheremo di descrivere alcuni dei siti del parco visitati, in questa occasione:

1. Casa Ceii: particolari scene di caccia con animali selvatici sono dipinte sulla parete di fondo del giardino, oltre alla presenza di paesaggi egittizzanti con pigmei ed animali del Delta del Nilo.

Riproduzioni che suggeriscono il forte legame del proprietario della domus con il mondo egizio e con il culto di Iside particolarmente diffuso negli ultimi anni di vita di Pompei.

All’interno sono riproposti parte degli allestimenti originari della dimora, con la risistemazione del tavolo in marmo e della vera di pozzo nell’atrio, in cui sono visibili i calchi di un armadio e della porta di ingresso.

Grandi spazi verdi, un lussuoso quartiere termale privato e vivide decorazioni, ci attendevano anche nel complesso dei Praedia di Giulia Felice.

2. Casa del Menandro: più che una casa è una enorme villa, di quasi 1800 m². La cosa inusuale è che il corpo centrale è stato costruito a un livello superiore rispetto a quello del cortile con il forno e i sotterranei e a quello dell’ergastulum, il quartiere riservato ai servi.

In un corridoio sotto il piccolo atrio della casa, nel 1930, gli archeologi addetti agli scavi rinvennero un tesoro straordinariamente ricco, per l’epoca archeologica a cui i beni si riferiscono, per i materiali di pregio con cui furono eseguiti, cioè oro e argento e per le capacità artistiche dei romani particolarmente in quel periodo. Il tesoro, per un totale di 84 kg, tra vasellame, oltre gioielli e monete, è conservato presso il Museo Nazionale Archeologico di Napoli.

3. Il Foro: è senza dubbio nel cuore pulsante della città. Gli antichi abitanti si recavano qui per accedere agli edifici principali della città e per partecipare alle manifestazioni religiose.

4. Le lupanare. Pompei è conosciuta anche come la città del vizio. Infatti, i pompeiani non presentavano problemi a ostentare le loro passioni e spesso le case erano dotate di stanze segrete dove le schiave esaudivano i desideri dei ricchi romani. L’edificio più conosciuto era il Lupanare: un edificio di due piani, ciascuno con 5 celle, ognuna fornita di un giaciglio di pietra su cui venivano sistemati dei materassi. La cosa curiosa è che il percorso per la struttura era indicato nelle vie della città da segnali a forma di fallo.

5. Villa dei Misteri: collocata in un’area più esterna del sito, si trova una delle ville patrizie più famose del posto, probabilmente la dimora di Livia, moglie dell’Imperatore Augusto.

Nella stanza del Triclinio, figure a grandezza naturale sono impegnate nei preparativi di un rito, ancora poco chiaro. Alcuni sostengono si tratti di un rito dionisiaco, altri semplicemente di un matrimonio. La Villa include anche una struttura termale e stanze suddivise per ambienti di servizio e residenziali.

6. Calchi: una delle testimonianze più eclatanti di tutto il sito archeologico, sono i 13 corpi rinvenuti ( per la precisione calchi in gesso) che cercavano di salvarsi dalla terribile eruzione del Vesuvio. Una testimonia drammata degli ultimi attimi di vita degli abitanti di Pompei.

I corpi sono rimasti sepolti in 9 metri di cenere per oltre 1900 anni! Nel 1863 il direttore degli Scavi, venne avvertito dagli operai che avevano incontrato una cavità, in fondo alla quale si scorgevano delle ossa. Ordinò che si arrestasse il lavoro, fece stemperare del gesso, che venne versato in quella cavità. Grazie alla tecnica utilizzata è stato possibile ricreare quel corpo all’interno della cavità e vedere le espressioni angosciate e addolorate di uomini, donne e bambini. Con questi calchi Pompei rivive la tragedia, un fermo immagine degli ultimi momenti di vita di un’intera popolazione.

Pompei non smette mai di sorprendere. Ogni anno, nuove scoperte aggiungono un tassello al mosaico della conoscenza ed è sempre affascinante ritornare. Dopo tutto si tratta della nostra storia 🙂

50 sfumature di verde: laghi di Monticchio.

Immagina di passeggiare nella natura e che questa, silente e placida, si rispecchi nel lago. Immagina che il lago sia la bocca di un antico vulcano spento. Immagina poi pioppi, cerri, faggi e roveri alti, dai tronchi enormi sotto i quali ti senti piccolissimo. Immagina una abbazia eretta su una grotta e foglie scricchiolanti sotto le scarpe.

Non serve immaginare se sei ai laghi di Monticchio.

Così una domenica di ottobre decidiamo di raggiungere L’Abbazia di San Michele, situata sul Monte Vulture.

L’antichissimo culto dell’Arcangelo Michele fu importato in Italia meridionale dai Longobardi che, spintisi fin qui, fondarono i principati di Benevento e di Salerno erigendo in questo territorio numerose chiese consacrate alla devozione del Santo. La grotta naturale, a picco sul lago, fu consacrata a luogo di culto dato che, secondo la tradizione, qui l’Arcangelo Michele apparve più volte alle popolazioni. Anni dopo, nella grotta dell’Arcangelo iniziarono a riunirsi prima i Monaci Basiliani, in fuga dalla dottrina della Chiesa Bizantina, poi i Benedettini, per frenare l’espansione della chiesa ortodossa. Questi ultimi fecero edificare l’abbazia, abbandonandola poi nel 1456. Ci fu un tempo, dunque, in cui a Monticchio convivevano, due ordini di fede, molto diversi per riti e principi dogmatici. Solo dopo l’affermazione politica e militare dei Normanni, i Basiliani abbandonarono gradualmente il Vulture e e l’Abbazia passò ai Cappuccini, che fondarono una biblioteca e un lanificio.

Oggi, il complesso abbaziale si articola su più piani, con la chiesa settecentesca e l’antichissima cappella di S. Michele, appoggiata al suolo roccioso della primitiva grotta, in cui vi sono numerosi affreschi di epoca bizantina e medievale. All’Abbazia si accede percorrendo un sentiero petroso immerso nella foresta di faggi e lecci e dalle sue finestre si gode di un bellissimo panorama sui laghi sottostanti.

Intorno ai laghi vi sono numerosi sentieri. Noi avendo poco tempo a disposizione abbiamo percorso quello attiguo all’Abbazia, che in 20 minuti porta al belvedere.

La vista che si gode a questa altezza non è priva di inconvenienti per chi soffre di vertigini, ma è ad ogni modo incantevole. Così abbiamo steso una tovaglia e ci siamo rilassati in un dolce picnic.

Il sentiero non è molto tracciato, infatti c’è stato un attimo in cui abbiamo messo in dubbio la possibilità di avanzare, per alcuni tronchi caduti di recente che ostacolavano la salita. Il terreno inoltre non è molto compatto, per cui nella discesa questo spesso franava un pò, sotto i nostri passi. Ma niente di preoccupante. Arrivati nuovamente all’Abbazia abbiamo intrapreso il percorso naturalistico che porta giù al lago piccolo.

I Laghi di Monticchio sono parte di una Riserva Regionale della Basilicata, una zona naturalistica molto piacevole da visitare. Si tratta di due laghi, sorti occupando l’area di due antichi crateri di quello che un tempo era un vulcano, circondati da una natura verdeggiante ed incontaminata.

Per godere dell’oasi di pace abbiamo noleggiato un pedalò dalla banchina del Lago Piccolo e siamo rimasti sospesi in quelle acque dalle 50 sfumature di verde.

Il tempo sembra fermarsi ❤️.

L’Abbazia si vede in tutto il suo splendore, aggrappata alla parete della montagna, bianca, imponente, elegante, incastonata nella parete del monte, che sovrasta i laghi, e in questi si riflette giocando con le nuvole.

Una bellissima passeggiata autunnale che consiglio a tutti.

Prima del rientro non poteva mancare una visita al Castello di Melfi, che al suo interno ospita l’interessantissimo Museo Archeologico Nazionale.

La Basilicata fu una terra che Federico II apprezzò molto e in cui soggiornava spesso per le sue amate battute di caccia. Il Castello di Melfi, sebbene sia stato costruito dai suoi predecessori normanni, divenne fulcro dell’attività amministrativa del suo regno, per poi diventare dei Doria fino al 1950 e poi di proprietà dello stato italiano.
La struttura ha una unica entrata agibile con un ponte che dà sul vasto fossato. Una volta ammirata la maestosità del castello si può accedere al museo, con un ticket di 2,50 euro. Le sale del museo custodiscono numerosi reperti archeologici ritrovati nella zona del Vulture, in particolare corredi funerari di guerrieri e nobili. Lasciano davvero a bocca aperta, sia per lo sfarzo che regnava all’epoca tra le genti nobili, sia per l’importanza che si dava alla fase della sepoltura. Insomma una full immersion culturale nella splendida cornice del Castello di Melfi che vi emozionerà sicuramente.
La Basilicata è anche questo

Francavilla Fontana.

Secondo la leggenda, nel 1310, mentre il principe di Taranto Filippo d’Angiò guidarva una battuta di caccia, un uomo al suo seguito adocchiò un cervo intento ad abbeverarsi ad una fonte. Quando costui mirò con l’arco e scoccò la freccia, il cervo cambiò rotta scagliandosi contro. Incredulo, chiamò il principe e scoprirono, nascosta in un cespuglio, un’effige della Vergine con il bambino fra le braccia. L’avvenimento portò alla creazione di una piccola chiesetta per il culto della Vergine, oggi la Chiesa Madre.

Per favorire il popolamento della zona circostante, Filippo I dichiarò permesso di franchigia, da cui nacque il nome Villa Franca.

Tra cupole, palazzi storici e graziose piazze è veramente piacevole vagabondare nel centro storico di Francavilla Fontana e ritrovarsi all’interno del Castello imperiale.

Quello che ammiriamo oggi è frutto di numerosi rimaneggiamenti avvenuti nel corso dei secoli: il risultato è un palazzo metà fortezza e metà dimora gentilizia, circondato da maestose mura. La famiglia degli Imperiali, principi illuminati e mecenati molto conosciuti, rese la cittadina un importante centro e luogo d’incontro di culture e di arti.

Dall’atrio si acceda ad un’antica cappella di Santa Maria delle Grazie, dove si possono ammirare affreshi, ritornati alla luce dopo un lavoro di scrostamento da vecchi intonaci presenti sulle pareti e sul soffitto.

Dal maestoso portone entriamo e saliamo lungo la scalinata che porta al piano superiore dove è possibile ammirare il loggiato di stile barocco, ricamato con i motivi che raffigurano foglioline, rami di palma, grappoli d’uva, rosette e vitigni che si avvolgono sinuosamente.

I vani del piano nobile si dispongono intorno all’ambiente più importante di tutto l’edificio: la sala del camino, con una sontuosa volta coperta interamente da un affresco. Al centro il dio Apollo guida un carro alato tirato da quattro cavalli e un guppo di splendide Muse che danzano.

Il portone aperto di un palazzo storico, risalente al ‘700, ci invita ad entrare: è la sede di uno storico circolo. All’interno, il presidente ed un socio ci raccontano i fasti del palazzo, le vetrate che si aprivano per i balli, i giochi d’azzardo che allietavano le loro serate. Un circolo forse destinato a scomparire perché non si è modernizzato, ma che ha conservato i drappi, la luce, il calore di un tempo.

La graziosa cittadina, con un centro storico riqualificato, ha una bella zona pedonale, ricca di negozi alla moda e di pasticcerie, da cui escono vassoi danzanti per il pranzo della domenica e la mente torna ad un tempo in cui ogni nostra domenica era coccolata dai pasticcini di Verna.

Con il naso all’insù, mi lascio sorprendere dai baconi finemente decorati dei palazzi, dai portoni, dalle vecchie insegne che ancora campeggiano qua e là. Direi che avere il naso all’insù è uno status mentale e fisico che mi accompagna sempre 🙂

Torre Guaceto: un triste ritrovamento

Situata nel territorio di Carovigno, a pochi chilometri da San Vito dei Normanni e Ostuni, questo tratto di costa, di zona umida e macchia mediterranea è molto frequentata durante i mesi estivi, grazie alla possibilità di accedere alla spiaggia e alle numerose attività che la riserva dedica, ma anche durante i mesi invernali è altrettanto affascinante e tutta da scoprire.

L’area è accessibile anche in autonomia, basta lasciare l’auto ai varchi del parco e procedere a piedi o in bici, camminando per i sentieri in terra battuta, oppure tra le dune, fino alla bella torre fortificata cinquecentesca che costituisce il cuore della riserva.

Noi abbiamo deciso di passeggiare tra le dune ed il percorso ci ha riservato piacevoli incontri. Abbiamo assistito agli ipnotici movimenti degli ultimi stormi, pronti alla migrazione, i quali con le loro evoluzioni alate disegnavano nuvole e onde nel cielo e abbiamo ascoltato suoni e sussurri della natura ai quali non siamo più abituati a dare ascolto.

Purtroppo c’è anche un’altra “lettura” di quello che abbiamo trovato sulla spiaggia: non parliamo solo di plastica e degli altri rifiuti trasportati dalle onde, ma di quelli lasciati dall’uomo consapevolmente. All’interno di una duna, dietro alcuni arbusti, decine di cassette di polistirolo, utilizzate durante la pesca. Cosa ci fanno cassette di polistirolo all’interno di una riserva naturale?

Purtroppo siamo stati testimoni anche di un triste ritrovamento: due esemplari di Caretta Caretta, che erano sullo stesso lembo di spiaggia, a poca distanza l’una dall’altra. Abbiamo avvertito immediatamente la Capitaneria di Porto, a cui abbiamo inviato la geolocalizzazione e le foto del ritrovamento. Il recupero sarebbe venuto l’indomani. Il rinvenimento ci ha lasciati amareggiati, non possiamo negare che dietro a due esemplari morti in uno stesso tratto di spiaggia c’è la mano dell’uomo.

Vito ballava con le streghe. Pietrapertosa

Inizia così il nostro viaggio a Pietrapertosa con l’associazione Murex ed il racconto di Mimmo Sammartino, che fissa sulla carta i racconti popolari, quelle storie che un po’ tutti noi abbiamo ascoltato, perché non si perdano nel tempo.

Sono storie di “masciare”, donne che conoscevano l’arte della magia e della fascinazione, del mistero delle parole e dei segni, che si ungevano con l’olio fatato raccolto dalla cavità di un albero d’ulivo e lo custodivano in una pignatta di terracotta e poi attraversavano in volo la notte. Una favola, che racchiude il rigore antropologico, l’amore per le proprie radici, l’emozione poetica, ma anche il viaggio alla ricerca di sé.

Il percorso delle 7 pietre è un progetto che recupera un antico sentiero contadino di circa 2 km, che collega i Comuni di Pietrapertosa e Castelmezzano e si sviluppa su quote variabili. Il percorso trae ispirazione dal racconto di Mimmo e prevede alcune installazioni multimediali, non tutte funzionanti al nostro arrivo, purtroppo.

Da Pietrapertosa scendiamo lungo il percorso delle 7 pietre, con piccole pause dedite all’ascolto della storia, ai profumi, alla natura, ma anche ad un buon caffè e un dolce buonissimo con marmellata di limoni, tutto rigorosamente prodotto da Alessia e Nico.

L’arrivo a Castelmezzano è decisamente scenografico, da cartolina. Il paese compare improvvisamente adagiato alla parete rocciosa.

Il borgo medievale di Castelmezzano, che dall’alto guarda la sua gemella Pietrapertosa, fu fondato nel X secolo da un popolo in fuga. Secondo la leggenda, un semplice pastore scoprì tra i pascoli un luogo nascosto, protetto da rocce e ricco di sorgenti d’acqua e si trasferì qui con il suo gregge. Ben presto altri pastori fecero altrettanto, per proteggersi dalle incursioni dei Saraceni e dagli eserciti in guerra tra loro. Fu così che nel X d.c., sorse il nucleo del nuovo paese.

Tra le cose da vedere a Castelmezzano ci sono i resti del fortilizio Normanno-Svevo, con la sua gradinata stretta e ripida scavata nella roccia, che porta nel punto più alto, dove la vedetta della guarnigione militare sorvegliava la sottostante valle del Basento.

All’ombra del castello abbiamo fatto la pausa pranzo, condividendo una pizza rustica fatta con le erbe selvatiche e del vino aglianico, che non poteva mancare.

Il centro storico di Castelmezzano è un susseguirsi di piccole viuzze, palazzi nobiliari, chiesette, panorami mozzafiato e piccoli locali. Qui tutto sembra una bomboniera e per le strade si respira un’aria di festa e di leggerezza. E con la leggerezza riconquistata nella mente e nel corpo abbiamo intrapreso il viaggio di ritorno, più spediti rispetto a prima, ma più consapevoli.

La risalita a Pietrapertosa, il paese più alto della Basilicata, posto a 1.088 metri sul livello del mare, è stata veramente faticosa, ma ampiamente ricompensata. Questo piccolo gioiello ospita poco meno di 1.000 abitanti.

La parte più antica del borgo si trova alle pendici del Castello ed è nota come Arabat, dall’antico nome saraceno. Gli arabi, arrivarono a Pietrapertosa insieme al principe Bomar, si insediarono in queste casette in pietra che erano comunicanti fra loro attraverso aggrovigliati cunicoli, strade e scalini tipici, anch’essi scavati nella roccia. La particolarità di queste abitazioni è che sono costruite in modo da essere un tutt’uno con le pareti di roccia, tanto che spesso si possono notare case le cui pareti sono rappresentate dalla roccia stessa, o viceversa. Tutto è in armonia con la natura che lo circonda.

La roccia, la rupe, gli strapiombi solitari e il castello sono gli elementi dominanti a Pietrapertosa. Il borgo si sviluppa lungo un’unica strada principale dove si possono notare case signorili con portali di pregio, iscrizioni, decori, e simboli, che testimoniano le famiglie nobili di un tempo in città.

ll Castello Normanno-Svevo è un sistema fortificato che risale all’epoca romana e divenne importante all’epoca dei normanni nel IX secolo. È situato sulla cima della roccia su cui si aggrappa la parte alta dell’abitato, il quartiere dell’Arabata. Ma la cosa più bella è proprio il panorama spettacolare che si gode da qui sù. Una vista eccezionale sulla Valle del Basento fatta di boschi verdeggianti, limpidi torrenti, forme strane di roccia disegnate dal vento e dalle piogge.

 Questo è un luogo magico, ed allo stesso tempo colmo di storia e di fascino.

Una ragazza del paese, volontaria del Fai, ci ha deliziato con il racconto di una tradizione popolare vissuta da tutta la comunita: U’ Masc. che si ripete da decenni in occasione dei festeggiamenti dedicati a S. Antonio da Padova.

Una festa che si basa su un antico rito pagano di primavera per festeggiare la fertilità e la fecondità, una specie di cerimonia di nozze simboliche tra due alberi che un corteo di boscaioli va a tagliare nel bosco e poi porta in paese per unirli tra loro ed adornarli. Il matrimonio avviene tra un tronco di cerro e una cima. Qui, i massari attendono le prime luci dell’alba, momento in cui lo sposo e la sposa, trasportati da coppie di animali, si avviano nella lunga marcia, davanti al campanile del Convento di San Francesco. Lo spettacolo si svolge sotto gli occhi della folla che assiste con apprensione alla fase di innalzamento e alla spettacolare scalata dell’albero da parte di un “maggiaiolo”. Durante la festa vengono distribuiti i “biscotti degli sposi” preparati sapientemente a mano dalle donne del paese, durante la notte che precede.

Molti visitatori, arrivano a Pietrapertosa anche per provare l’esperienza adrenalinica del volo dell’angelo. Confesso che mi sono venute le vertigini solamente ad alzare gli occhi al cielo. Ma è spettacolare anche solo osservarlo.

Questo trekking, seppur faticoso(22.200 passi) conferma ciò che penso della Basilicata: terra stupenda, ancestrale, capace di offrire esperienze uniche, dove il tempo sembra essersi fermato, fissando nella pietra ciò che è stato.

A presto 🙂