La Rabatana

Rabatana è un quartiere di Tursi che deve il suo nome alla presenza dei Saraceni, che si installarono nella città all’incirca nel periodo 850-930 d.C. Il nome deriva infatti dall’arabo rabad, che significa borgo. Situato nella parte più alta dell’abitato, la Rabatana è circondata da valli e burroni, un quartiere silenziosissimo, un luogo di pace che poggia su un costone di timpa.

Facciamo la conoscenza di Salvatore Di Gregorio, che ha acquistato un’abitazione tipica nell’antico borgo. Con cura e pazienza si è dedicato alla pulizia della stessa, dopo anni di abbandono da parte dei tanti eredi, curandone l’anima e riportando alla luce le storie con cui questa casa si è nutrita per decenni.

Ha ritrovato alcuni oggetti: una piccolissima foto di una famiglia patriarcale tra le fessure di una parete; un’antichissima anfora di terracotta, attualmente oggetto di studio, che creano un forte legame con il passato, ancora presente. Conoscitore del territorio tursiano, ma non solo, Salvatore ha rinvenuto anche una serie di botroidi, particolari formazioni geologiche, che si formano per la deposizione di carbonato di calcio in sabbie e sedimenti pliocenici. Questi sassi vengono anche chiamati “pupazzi di pietra”, per la loro assomiglianza a piccole sculture antropomorfe. La casa di Salvatore è un bellissimo luogo dove perdersi, ascoltando i suoi racconti.

Nella parte più antica, oggi disabitata, si trova la chiesa di Santa Maria Maggiore, edificata nel Cinquecento sulla primitiva chiesa, costruita dai monaci basiliani nel IX secolo. La chiesa conserva vere e proprie opere d’arte tra le quali un trittico di fine ‘300 con al centro la Madonna col Bambino in trono, attribuita ad un autore fiorentino della scuola di Giotto. All’interno della cripta, decorata da splendidi affreschi, si può ammirare l’incantevole presepe in pietra scolpito attorno al 1550 dallo scultore Altobello Persio (1507-1593). È il risultato di un accurato lavoro attraverso il quale l’autore ha plasmato la materia per dare forma e colore alla Sacra Famiglia.

Basta allontanarsi un pò dalla Rabatana per imbattesi nel Convento intitolato a San Francesco D’Assisi è appartenuto all’ordine dei frati minori Osservanti. Una Bolla Papale riporta i natali della struttura al 1441, anche se al suo interno è stato ritrovato un affresco che risale al 1377. Il convento prosperò sin dall’inizio, ospitando cattedre di professori e diventando un centro culturale di enorme importanza.

Nel 1807 iniziano i primi sfortunati avvenimenti: un saccheggiamento, un incendio della biblioteca da parte dell’esercito francese di Napoleone Bonaparte e un violento terremoto nel 1857. La proprietà passò al demanio e di qui fino al 1894 divenne un cimitero. Per tutto il secolo successivo è stato oggetto di atti vandalici, a danno dei morti sepolti all’interno della chiesa, oltre che nei suoi pressi. Le ragioni che hanno spinto i responsabili a tali barbarie sono purtroppo solamente ipotizzabili.
Nel 1914 fu chiuso definitivamente ad esclusione della cappella e del campanile che vennero utilizzati fino agli anni ’60, nel giorno della festa di Sant’Antonio, durante la processione del 13 giugno.

Nonostante gli sfortunati eventi, nel 1991, grazie alla sua bellezza storica e architettonica, è stato dichiarato monumento nazionale dal ministro Ferdinando Facchiano, ma la il recupero di questo luogo sempre ancora molto lontano.

Se decidete di passare dalla Rabatana, cercate la bottega di Salvatore, vi parlerà dei segreti di questo luogo, sospeso fra spazio e tempo, custode di una civiltà perduta.


Calabria on the road: 1° parte

Abbiamo capito sin da subito che l’auto è il mezzo migliore e più comodo per visitare la Calabria. Per cui siamo partiti di buon ora alla scoperta di questa lingua di terra e dei suoi luoghi così paradisiaci, ancora poco valorizzati.

In questo articolo ripercorreremo le prime tappe del nostro on the road:

  • Castello di San Fili
  • Pentadattilo
  • Reggio Calabria
  • Scilla

Il percorso sino alla provincia di Reggio Calabria meritava una piccola sosta e così ci siamo fermati al Castello di San Fili. Il palazzo sorge su un promontorio, come una sentinella che da secoli osserva il mutare del tempo. Costruito tra il 1710 e il 1720 dal capitano Giuseppe Lamberti, si incastona perfettamente tra il cielo ed il mare e le ampie finestre del piano nobile offrono incantevoli vedute, trasformando ogni sguardo in un dipinto.

Dal Castello ci siamo diretti a Pentadattilo (che ha un racconto tutto suo-https://rondinelleinviaggiofamily.blog/2025/02/01/pentedattilo-alla-ricerca-della-felicita/) e siamo scivolati verso Reggio Calabria per “conoscere” i Bronzi di Riace, esposti al Museo Archeologico Nazionale. Ritrovati in mare nel 1972 da un sub romano, i Bronzi raffigurano due uomini nudi, giovani e forti, risalgono probabilmente al V secolo a.C.

Le due opere sono state a lungo al centro di una sorta di giallo archeologico: forse affondarono con una nave oppure furono gettate in mare, nel tentativo di alleggerire il carico e scongiurare un naufragio. Quest’ultima sembra l’ipotesi più attendibile, dato che nel luogo del ritrovamento non c’era traccia dei resti dell’imbarcazione e neppure di altri oggetti. I Bronzi sono diventati le statue-simbolo, l’espressione del concetto di bellezza sviluppatosi in Grecia, quella maschile, che si identificava con l’armonia di un corpo muscoloso, capace di esprimere forza, vigore e salute.

Per iniziare la nostra passeggiata a Reggio Calabria, dopo il museo, ci siamo recati al Lungomare Falcomatà, definito anche “il chilometro più bello d’Italia”. La bellezza di questo kilometro è leggendaria. La vista che qui si può ammirare sullo stretto di Messina, aulla Sicilia e sull’Etna lascia a bocca aperta. Lungo questo scorcio, che i reggini definiscono “le tre marine”, c’è la possibiltà di ammirare edifici, monumenti, piazzette, sculture e scavi archeologici, per conoscere un pò meglio la città. La passeggiata nella storia è resa più gradevole dal gelato di Cesare, una delle migliori gelaterie d’Italia, un famoso chioschetto verde situato qui da oltre 100 anni.

Ad impreziosire questo lembo di terra ci sono tre spledide sculture umanoidi dell’artista Rabarama, installate nel 2007, che danno le spalle alla villa, stile neo-liberty, come altri edifici ristrutturati/ricostruiti dopo il terremoto del 1908.

Non mancano gli affacci sul mare, fra questi la spettacolare Arena dello Stretto, monumento storico della città, fortemente ispirata a quella dell’antica tradizione magnogreca. All’estremità la statua bronzea della dea Athena, a difesa della città. Con un’ampia gradinata semicircolare, l’Arena si presta a eventi, manifestazioni teatrali, musicali e mostre fotografiche, come quella di Letizia Battaglia, che abbiamo avuto la fortuna di ammirare. L’artista ha immortalato la Sicilia come mai nessuno aveva osato.

Proseguiamo il nostro tour per Scilla, che fa parte della cosidetta Costa Viola, per via del colore che le acque assumono in determinate ore del giorno. Il fatto che questo borgo sia legato alla mitologia greca, più precisamente dall’Odissea di Omero, lo rende ancora più suggestivo. Scilla era una ninfa che aveva rifiutato l’amore di Glauco, il Dio marino, metà pesce e metà uomo. Questo, si rivolse alla maga Circe, innamorata di lui, per far cadere Scilla tra le sue braccia, ma Circe, invidiosa, la trasformò in un mostro marino con sei teste di cane. Da quel momento Scilla andò a nascondersi in una grotta dello stretto divorando e terrorizzando i malcapitati naviganti, inclusi i compagni di Ulisse.

Grotte, mostri marini e sirene sono le leggende per spiegare i mulinellli, gorghi e vortici nelle acque dello stretto di messina che rendevano difficile la navigazione delle fragili imbarcazioni di un tempo.

Tutta la costa è sovrastata dall’imponente Castello dei Ruffo, che sorge sulla rocca e che prende il nome del famoso mostro omerico. Il Castello fu dimora del Conte Paolo Ruffo, il quale dominò il feudo di Scilla dal 1523, difendendo il borgo dal Pirata Barbarossa. Da questa rocca si apre un suggestivo panorama sulle Isole Eolie e sulla costa siciliana.

Dalle spiagge di Scilla seguendo un piccolo percorso a piedi è possibile raggiungere Chianalea di Scilla, il pittoresco borgo di pescatori, completamente avulso dalla realtà che lo circonda. Le case di Chianalea sono costruite direttamente sugli scogli e sono separate da strette viuzze che chiamano verso il mare. Man mano che scendi l profumo del mare diviene intenso e gli scorci poetici.

La pesca rimane uno dei tratti caratteristici del borgo, nonché la sua attività principale, in particolare quella del pesce spada che continua a farsi con i “luntri”, le tipiche imbarcazioni a remi, o con le più moderne “passarelle”, barche a motore con l’antenna d’avvistamento.

In questo quartiere abbiamo avuto la fortuna di ascoltare le storie di pescatori, che abitano queste case quasi sospese sull’acqua, intenti a sistemare le loro reti. Scilla, insieme a Palmi e Bagnara erano famose per la pesca del pesce spada, che veniva tramandato di padre in figlio. Il pesce spada rappresentava anche un vanto della cucina locale. Ora però sono in pochi a proseguire questa tradizione. I ragazzi hanno fatto altre scelte e la normativa, la burocrazia ed i costi non aiutano i pochi che sono rimasti.

Nonostante queste considerazioni non del tutto rosee dell’economia, Chianalea è un gioiello che merita di essere visto almeno una volta della vita. Davanti alle case che si sposano con le acque puoi osservare, ascoltare, sognare un tempo perduto, che torna quotidianamente, portato dalle onde.

50 sfumature di verde: laghi di Monticchio.

Immagina di passeggiare nella natura e che questa, silente e placida, si rispecchi nel lago. Immagina che il lago sia la bocca di un antico vulcano spento. Immagina poi pioppi, cerri, faggi e roveri alti, dai tronchi enormi sotto i quali ti senti piccolissimo. Immagina una abbazia eretta su una grotta e foglie scricchiolanti sotto le scarpe.

Non serve immaginare se sei ai laghi di Monticchio.

Così una domenica di ottobre decidiamo di raggiungere L’Abbazia di San Michele, situata sul Monte Vulture.

L’antichissimo culto dell’Arcangelo Michele fu importato in Italia meridionale dai Longobardi che, spintisi fin qui, fondarono i principati di Benevento e di Salerno erigendo in questo territorio numerose chiese consacrate alla devozione del Santo. La grotta naturale, a picco sul lago, fu consacrata a luogo di culto dato che, secondo la tradizione, qui l’Arcangelo Michele apparve più volte alle popolazioni. Anni dopo, nella grotta dell’Arcangelo iniziarono a riunirsi prima i Monaci Basiliani, in fuga dalla dottrina della Chiesa Bizantina, poi i Benedettini, per frenare l’espansione della chiesa ortodossa. Questi ultimi fecero edificare l’abbazia, abbandonandola poi nel 1456. Ci fu un tempo, dunque, in cui a Monticchio convivevano, due ordini di fede, molto diversi per riti e principi dogmatici. Solo dopo l’affermazione politica e militare dei Normanni, i Basiliani abbandonarono gradualmente il Vulture e e l’Abbazia passò ai Cappuccini, che fondarono una biblioteca e un lanificio.

Oggi, il complesso abbaziale si articola su più piani, con la chiesa settecentesca e l’antichissima cappella di S. Michele, appoggiata al suolo roccioso della primitiva grotta, in cui vi sono numerosi affreschi di epoca bizantina e medievale. All’Abbazia si accede percorrendo un sentiero petroso immerso nella foresta di faggi e lecci e dalle sue finestre si gode di un bellissimo panorama sui laghi sottostanti.

Intorno ai laghi vi sono numerosi sentieri. Noi avendo poco tempo a disposizione abbiamo percorso quello attiguo all’Abbazia, che in 20 minuti porta al belvedere.

La vista che si gode a questa altezza non è priva di inconvenienti per chi soffre di vertigini, ma è ad ogni modo incantevole. Così abbiamo steso una tovaglia e ci siamo rilassati in un dolce picnic.

Il sentiero non è molto tracciato, infatti c’è stato un attimo in cui abbiamo messo in dubbio la possibilità di avanzare, per alcuni tronchi caduti di recente che ostacolavano la salita. Il terreno inoltre non è molto compatto, per cui nella discesa questo spesso franava un pò, sotto i nostri passi. Ma niente di preoccupante. Arrivati nuovamente all’Abbazia abbiamo intrapreso il percorso naturalistico che porta giù al lago piccolo.

I Laghi di Monticchio sono parte di una Riserva Regionale della Basilicata, una zona naturalistica molto piacevole da visitare. Si tratta di due laghi, sorti occupando l’area di due antichi crateri di quello che un tempo era un vulcano, circondati da una natura verdeggiante ed incontaminata.

Per godere dell’oasi di pace abbiamo noleggiato un pedalò dalla banchina del Lago Piccolo e siamo rimasti sospesi in quelle acque dalle 50 sfumature di verde.

Il tempo sembra fermarsi ❤️.

L’Abbazia si vede in tutto il suo splendore, aggrappata alla parete della montagna, bianca, imponente, elegante, incastonata nella parete del monte, che sovrasta i laghi, e in questi si riflette giocando con le nuvole.

Una bellissima passeggiata autunnale che consiglio a tutti.

Prima del rientro non poteva mancare una visita al Castello di Melfi, che al suo interno ospita l’interessantissimo Museo Archeologico Nazionale.

La Basilicata fu una terra che Federico II apprezzò molto e in cui soggiornava spesso per le sue amate battute di caccia. Il Castello di Melfi, sebbene sia stato costruito dai suoi predecessori normanni, divenne fulcro dell’attività amministrativa del suo regno, per poi diventare dei Doria fino al 1950 e poi di proprietà dello stato italiano.
La struttura ha una unica entrata agibile con un ponte che dà sul vasto fossato. Una volta ammirata la maestosità del castello si può accedere al museo, con un ticket di 2,50 euro. Le sale del museo custodiscono numerosi reperti archeologici ritrovati nella zona del Vulture, in particolare corredi funerari di guerrieri e nobili. Lasciano davvero a bocca aperta, sia per lo sfarzo che regnava all’epoca tra le genti nobili, sia per l’importanza che si dava alla fase della sepoltura. Insomma una full immersion culturale nella splendida cornice del Castello di Melfi che vi emozionerà sicuramente.
La Basilicata è anche questo

Vito ballava con le streghe. Pietrapertosa

Inizia così il nostro viaggio a Pietrapertosa con l’associazione Murex ed il racconto di Mimmo Sammartino, che fissa sulla carta i racconti popolari, quelle storie che un po’ tutti noi abbiamo ascoltato, perché non si perdano nel tempo.

Sono storie di “masciare”, donne che conoscevano l’arte della magia e della fascinazione, del mistero delle parole e dei segni, che si ungevano con l’olio fatato raccolto dalla cavità di un albero d’ulivo e lo custodivano in una pignatta di terracotta e poi attraversavano in volo la notte. Una favola, che racchiude il rigore antropologico, l’amore per le proprie radici, l’emozione poetica, ma anche il viaggio alla ricerca di sé.

Il percorso delle 7 pietre è un progetto che recupera un antico sentiero contadino di circa 2 km, che collega i Comuni di Pietrapertosa e Castelmezzano e si sviluppa su quote variabili. Il percorso trae ispirazione dal racconto di Mimmo e prevede alcune installazioni multimediali, non tutte funzionanti al nostro arrivo, purtroppo.

Da Pietrapertosa scendiamo lungo il percorso delle 7 pietre, con piccole pause dedite all’ascolto della storia, ai profumi, alla natura, ma anche ad un buon caffè e un dolce buonissimo con marmellata di limoni, tutto rigorosamente prodotto da Alessia e Nico.

L’arrivo a Castelmezzano è decisamente scenografico, da cartolina. Il paese compare improvvisamente adagiato alla parete rocciosa.

Il borgo medievale di Castelmezzano, che dall’alto guarda la sua gemella Pietrapertosa, fu fondato nel X secolo da un popolo in fuga. Secondo la leggenda, un semplice pastore scoprì tra i pascoli un luogo nascosto, protetto da rocce e ricco di sorgenti d’acqua e si trasferì qui con il suo gregge. Ben presto altri pastori fecero altrettanto, per proteggersi dalle incursioni dei Saraceni e dagli eserciti in guerra tra loro. Fu così che nel X d.c., sorse il nucleo del nuovo paese.

Tra le cose da vedere a Castelmezzano ci sono i resti del fortilizio Normanno-Svevo, con la sua gradinata stretta e ripida scavata nella roccia, che porta nel punto più alto, dove la vedetta della guarnigione militare sorvegliava la sottostante valle del Basento.

All’ombra del castello abbiamo fatto la pausa pranzo, condividendo una pizza rustica fatta con le erbe selvatiche e del vino aglianico, che non poteva mancare.

Il centro storico di Castelmezzano è un susseguirsi di piccole viuzze, palazzi nobiliari, chiesette, panorami mozzafiato e piccoli locali. Qui tutto sembra una bomboniera e per le strade si respira un’aria di festa e di leggerezza. E con la leggerezza riconquistata nella mente e nel corpo abbiamo intrapreso il viaggio di ritorno, più spediti rispetto a prima, ma più consapevoli.

La risalita a Pietrapertosa, il paese più alto della Basilicata, posto a 1.088 metri sul livello del mare, è stata veramente faticosa, ma ampiamente ricompensata. Questo piccolo gioiello ospita poco meno di 1.000 abitanti.

La parte più antica del borgo si trova alle pendici del Castello ed è nota come Arabat, dall’antico nome saraceno. Gli arabi, arrivarono a Pietrapertosa insieme al principe Bomar, si insediarono in queste casette in pietra che erano comunicanti fra loro attraverso aggrovigliati cunicoli, strade e scalini tipici, anch’essi scavati nella roccia. La particolarità di queste abitazioni è che sono costruite in modo da essere un tutt’uno con le pareti di roccia, tanto che spesso si possono notare case le cui pareti sono rappresentate dalla roccia stessa, o viceversa. Tutto è in armonia con la natura che lo circonda.

La roccia, la rupe, gli strapiombi solitari e il castello sono gli elementi dominanti a Pietrapertosa. Il borgo si sviluppa lungo un’unica strada principale dove si possono notare case signorili con portali di pregio, iscrizioni, decori, e simboli, che testimoniano le famiglie nobili di un tempo in città.

ll Castello Normanno-Svevo è un sistema fortificato che risale all’epoca romana e divenne importante all’epoca dei normanni nel IX secolo. È situato sulla cima della roccia su cui si aggrappa la parte alta dell’abitato, il quartiere dell’Arabata. Ma la cosa più bella è proprio il panorama spettacolare che si gode da qui sù. Una vista eccezionale sulla Valle del Basento fatta di boschi verdeggianti, limpidi torrenti, forme strane di roccia disegnate dal vento e dalle piogge.

 Questo è un luogo magico, ed allo stesso tempo colmo di storia e di fascino.

Una ragazza del paese, volontaria del Fai, ci ha deliziato con il racconto di una tradizione popolare vissuta da tutta la comunita: U’ Masc. che si ripete da decenni in occasione dei festeggiamenti dedicati a S. Antonio da Padova.

Una festa che si basa su un antico rito pagano di primavera per festeggiare la fertilità e la fecondità, una specie di cerimonia di nozze simboliche tra due alberi che un corteo di boscaioli va a tagliare nel bosco e poi porta in paese per unirli tra loro ed adornarli. Il matrimonio avviene tra un tronco di cerro e una cima. Qui, i massari attendono le prime luci dell’alba, momento in cui lo sposo e la sposa, trasportati da coppie di animali, si avviano nella lunga marcia, davanti al campanile del Convento di San Francesco. Lo spettacolo si svolge sotto gli occhi della folla che assiste con apprensione alla fase di innalzamento e alla spettacolare scalata dell’albero da parte di un “maggiaiolo”. Durante la festa vengono distribuiti i “biscotti degli sposi” preparati sapientemente a mano dalle donne del paese, durante la notte che precede.

Molti visitatori, arrivano a Pietrapertosa anche per provare l’esperienza adrenalinica del volo dell’angelo. Confesso che mi sono venute le vertigini solamente ad alzare gli occhi al cielo. Ma è spettacolare anche solo osservarlo.

Questo trekking, seppur faticoso(22.200 passi) conferma ciò che penso della Basilicata: terra stupenda, ancestrale, capace di offrire esperienze uniche, dove il tempo sembra essersi fermato, fissando nella pietra ciò che è stato.

A presto 🙂

Ruffano, un piccolo gioiello salentino

Nella terra Salentina nasce uno splendido borgo dalle origini molto antiche, Ruffano. Una piccola cittadina che si colloca tra due mari, quasi a pari distanza dallo Jonio e dall’Adriatico, ricco di storia e di tradizioni locali.

I portali barocchi, le case a corte, i portoncini colorati, il museo della Civiltà Contadina, i numerosi palazzi settecenteschi, la chiesa dell’Annunziata e il Castello Brancaccio: tutto merita di essere visitato.

Il Castello è in realtà un palazzo nobiliare, impreziosito da sculture e bassorilievi nella loggia interna e collegato alla Chiesa matrice tramite una loggia esterna (la cosiddetta “Loggia Brancaccio”), grazie alla quale i suoi occupanti potevano godere della possibilità di assistere alle funzioni religiose dall’alto di due finestrelle che si affacciavano direttamente all’interno dell’edificio sacro.

Questo era definito “privilegio della grata ed è un simbolo del rapporto tra Chiesa e aristocrazia, accordato nel 1657 direttamente dal papa Alessandro VII allora principe di Ruffano, Carlo Brancaccio. 
Fu proprio la casata napoletana dei Brancaccio, a rendere grandi e nobili, nel corso del 1600, il palazzo e il relativo feudo. Dopo varie conquiste che smembrarono il feudo la proprietà passò alla nobile famiglia Leuzzi di Latiano.
Il matrimonio fra una Leuzzi e un Pizzolante, diede origine al doppio cognome Pizzolante-Leuzzi, famiglia che ancora adesso occupa l’antico palazzo nobiliare con l’ultimo discendente.

Lasciandoci alle spalle la piazza dominata dalla torre dell’orologio, entriamo nel castello tramite il portone principale, sormontato dallo stemma dei marchesi Ferrante, e ci inoltriamo nello splendido atrio, dominato dalla statua del principe Brancaccio.

La Chiesa matrice custodisce al suo suo interno altari finemente intagliati nella duttile pietra leccese e le grandi tele del pittore ruffanese Saverio Lillo, impossibile non notare l’enorme tela in cui Gesù Caccia i mercanti dal tempio.

La passeggiata nel centro storico prosegue con la scoperta dell’ipogeo e degli artisti locali che espongono le loro opere, tra materiali in legno, di corda e ceramica. La ceramica è una delle peculiarità del territorio di Ruffano, un paese in cui in passato gran parte dell’economia si basava sull’arte dei pignatari e si contava la presenza di numerose fornaci.

Poco distante dal centro urbano, due artisti, hanno dipinto a mano una scalinata urbana, rendendola una sorta di coloratissimo tappeto volante. “Volante” perché attraverso decori che si ispirano alla tradizionale produzione di tappeti del Mediterraneo e a simboli e scene della vita del paese, crea l’impressione di essere proiettati in altri luoghi e culture.

Insomma, di certo non c’è da annoiarsi se decidete di andare a Ruffano. Ancor più se decidete di farlo quando è in programma Cortili aperti, così come abbiamo fatto noi.

Come tappa finale della nostra uscita fuori porta, al confine con il comune di Casarano, abbiamo raggiunto un importante sito naturale. Si tratta di una grotta trasformata in luogo di culto cristiano dai Basiliani nel XI secolo. Al suo interno convivono graffiti di epoca paleolitica, neolitica e affreschi bizantini.

Il Salento ci riserva sempre belle sorprese 🙂

Oria, tra fascino e mistero

Il borgo di Oria è un insieme di stradine tortuose che tra scalinate, passaggi pedonali, colonne romane, mura medioevali e chiese rinascimentali lo rendono un piccolo gioiello dell’entroterra pugliese, ricco di mistero e fascino. Siamo giunti a Piazza Manfredi, punto nevralgico della città, dove oggi come in passato la gente è solita incontrarsi e scambiare due chiacchiere. La piazza si presenta come un corridoio che si allarga in corrispondenza del palazzo del Sedile, dove ci attendeva la Pro Loco.

Il tour “Oria Sotterranea” ci ha rivelato un borgo ricco di storia, racchiuso da un alone di mistero.

Siamo nel medioevo e a causa dei ripetuti crolli, il progetto per edificare il castello si arrestava continuamente. Si diffuse la voce che la città fosse stata colpita da una maledizione, così su consiglio di alcuni veggenti, si decise di sacrificare una bambina innocente e di spargere il sangue lungo il perimetro del castello. La madre disperata per la morte della sua bambina lanciò un monito contro la città: “Possa tu fumare Oria, come fuma il mio cuore esasperato“. Da questa leggenda l’appellattivo di “Oria fumosa”.

Dal Palazzo del Sedile raggiungiamo la Chiesa di S. Antonio da Padova, che custodisce alla suo interno la cripta di San Mauro, visibili sulle pareti ancora gli affreschi, centralmente San Mauro, a destra la Madonna del Melograno.

Lungo le pareti sono pesenti vani verticali, probabilmente preposti ad accogliere i defunti.

Rientriamo attraverso una delle porte della città e giungiamo alla Chiesa di S. Maria dell’Assunta, costruita in stile barocco su una precedente struttura romanica. Questa splendida chiesa cattura lo sguardo fin dal primo istante con la sua imponente cupola, le sue mattonelle policrome e il lanternino a bulbo arabo che aggiungono un tocco di eleganza e raffinatezza al profilo architettonico dell’edifico.

Sotto le sue fondamenta, si cela una sorpresa: la Cripta delle Mummie. Unico nel suo genere non solo in terra salentina, ma al mondo. La cripta delle Mummie è il solo caso in cui ad avere l’onore di essere mummificati sono stati dei laici.

La storia inizia quando Otranto viene invasa dai turchi ed Oria corre in soccorso e come onorificenza a chi tornava vivo veniva concessa la mummificazione.

Il progetto aveva lo scopo di dar loro riconoscenza eterna. Tuttavia, nel 1806, Napoleone Bonaparte emise un editto con il quale vietava le sepolture nelle chiese e le imbalsamazioni. Gli studi sulle mummie però hanno rivelato che tra quelle giunte fino ai giorni nostri, soltanto una è antecedente l’editto, mentre le altre sono tutte riconducibili al periodo successivo, fino al 1858. Prova che ad Oria si continuò clandestinamente la pratica della mummificazione. Il salone in cui si trovano le mummie presenta una volta a botte ed il pavimento in terra battuta sul quale sono poste tre botole che permettono l’accesso ai cunicoli sotterranei allestiti per l’inumazione e conducenti fino alla Torre Palomba. Sopra le nicchie contenenti i corpi degli ultimi confratelli mummificati, vi è una struttura sulla quale sono poggiati i teschi di coloro che sono morti da più tempo.

Ultima tappa di questo tour, Palazzo Martini, situato nel cuore del centro storico di Oria. Il palazzo ospita reperti storic che coprono un arco temporale compreso tra l’età arcaica e quella imperiale romana ed offrono la possibilità di cogliere aspetti significativi della realtà socioculturale delle popolazioni messapiche in relazione al culto dei morti e alle usanze funerarie.

Gli scavi archeologici hanno portato alla luce migliaia di reperti, identificati come offerte votive che riconducono al culto di Demetra e Persefone, in una grotta che si trova sul Monte Papalucio, poco distante dalla città. Echi di antichi culti di guarigione – la papagna” e “lu ‘nfascinu”- che echeggiano ancora nella tradizione contadina.

Un borgo da non perdere assolutamente! Noi ci siamo state in primavera, con il naso all’insù tra il blu e le nuvole che correvano veloci.

Nel Gotico a due passi dal cielo e dal mare.

L’ultimo giorno a Barcellona ci lasciamo scivolare dolcemente tra le strade del Gotico. I ricordi sono tantissimi, ogni angolo, ogni albero del quartiere avrebbe da raccontare la propria storia.

Iniziamo dalla Rambla. Un’ampia via pedonale costellata di negozi, di bancarelle di fiori colorati e artisti di strada.  Uno dei punti focali di questa strada è il Mercato de La Boqueria, un mercato alimentare coperto che offre una vasta gamma di prelibatezze, corridoi colorati, profumi irresistibili di frutta, verdura, carne, pesce e dolci tradizionali.

Dalla Rambla ci siamo addentrati nel quartiere Gótico, un luogo intriso di storia e fascino, caratterizzato da strade lastricate strette e tortuose, edifici medievali imponenti e angoli pittoreschi che ti trasportano indietro nel tempo.

Passando per la necropoli romana e attraversando la via del cioccolato, siamo arrivati in Plaça del Pi, dove si trova la Basilica di Santa Maria del Pi, costruita in stile gotico-catalano.                         Secondo la tradizione, il nome della basilica deriva dal ritrovamento dell’immagine della Vergine dentro un tronco di pino e sempre per lo stesso motivo venne piantato un albero di pino proprio davanti la porta della chiesa.

Nella chiesa del PI si trovano El Gegantes, giganti della tradizione, ancora utilizzati negli eventi religiosi, seppur in una versione più leggera da sostenere durante la processione.

Proseguendo la nostra passeggiata ci siamo recati alla Cattedrale di Barcellona, dedicata a Santa Eulalia, patrona della citta’.               Durante il dominio romano, l’imperatore Diocleziano ordinò la persecuzione di tutti i cristiani, la piccola Eulalia osò sfidare il console romano e venne condannata a subire 13 torture, tante quanti gli anni che aveva.  

La cattedrale è di stile gotico, costruita a sua volta sopra un’antica chiesa di stile romanico. Ma la facciata è posteriore e risale addirittura al diciannovesimo secolo, quando fu indetto un concorso per la sua realizzazione, al quale parteciparono vari architetti.

L’edificio è famoso per il suo chiostro risalente al ‘300, in cui vivono tredici oche, ognuna rappresenta un anno di vita della martire Santa Eulalia.

Dinanzi alla Cattedrale, la scritta Barcino  e le due torri romane, ci ricordano il passato romano della città e lungo un lato della Cattedrale si trova “uno dei luoghi più fotografati” del Barrio Gotico: il Pont del Bisbe.

Il ponte in realtà non e’ antico,  risale al 1928, il suo stile è ispirato al gotico fiammingo e veniva utilizzato dalle personalità della politica per passare da un edificio all’altro. Una leggenda narra che basta camminare in senso contrario ed esprimere un desiderio guardando negli occhi il teschio presente sotto il ponte per farlo avverare.

A poca distanza dalla cattedrale un’altro luogo ormai iconico della citta’: il murales del bacio. Si tratta di un grande fotomosaico realizzato nel 2014 per commemorare la caduta della città durante la guerra di seccessione spagnola. Il giornale spagnolo chiese ai propri lettori di inviare fotografie che ricordassero momenti di libertà. Da lontano si vedono due labbra che si baciano, ma avvicinandosi si scopre che ci sono 4.000 piastrelle, ognuna di esse immortala la felicità fatta di momenti quotidiani.

Ci siamo diretti verso Casa de l’Ardiaca, un edificio gotico vicino alla Cattedrale dove vivevano gli arcidiaconi, un’ordine ecclesiastico ora scomparso. Negli anni l’edificio ha avuto molteplici usi e nel 1902 un architetto fu incaricato di abbellire l’edificio. Ogni elemento decorativo ha un suo significato particolare: lo scudo, le rondini, latartaruga e l’edera. Una curiosa allegoria della giustizia: la giustizia cerca di volare alto come le rondini ma gli impedimenti burocratici (l’edera) la rendono lenta come una tartaruga.

Una delle ultime tappe nel quartiere è stata la piazza che ospita la Chiesa di San Filippo Neri. E’ una piazza veramente speciale, per la tranquillità che si respira e per la storia che nasconde.

Una fontana al centro, una chiesa sullo sfondo, due case e un bar sono tutti gli elementi che la compongono. Sulla facciata della Chiesa, che da’ il nome alla Piazza, sono ancora visibili i segni del bombardamento aereo del 30 gennaio del 1938 da parte dell’aviazione italiana fascista, alleata di Franco.

La figura di Gaudì è strettamente legata a questa Chiesa. L’architetto si recava tutti i pomeriggi per pregare e fu proprio in quel frangente che, il 7 giugno 1926, venne investito e morì. I passanti lo scambiarono per un barbone e non lo soccorsero. All’interno della chiesa ci sono due dipinti realizzati da un pittore, grande amico di Gaudì. L’artista dovendo dipingere la faccia del santo Filippo Neri chiese al suo amico di posare per lui.

Prima di andar via sono andata a caccia di una terrazza per vedere la città dall’alto. Ormai in molte città gli hotel mettono a disposizione le loro terrazze e noi siamo stati nel quartiere El Raval. Questo quartiere è caratterizzato da una mescolanza di culture e ha subito una trasformaione significativa in questi anni. Qui potrete scoprire una vivace scena artistica e culturale, con gallerie d’arte, negozi vintage, mercati locali e una varietà di ristoranti etnici ed una delle viste panoramiche più speciali della città. Grazie alla forma cilindrica dell’hotel, questa terrazza offre una vista di 360 gradi su tutta la città. L’ingresso è gratuito e non vi obbligo di consumazione.

Il richiamo del mare è come sempre assordante ed è bastato guardarlo dalla terrazza per decidere di andargli incontro. Port Vell è stata una piacevole pausa pranzo e poi abbiamo raggiunto la spiaggia di Barceloneta, famosa per la sabbia dorata e le acque blu cristalline.

Questa spiaggia (e tutte quelle di Barcellona in generale), non esisteva prima del 1992, quando in occasione delle Olimpiadi tantissimi quartieri di Barcellona vennero completamente trasformati. La Barceloneta è uno degli esempi più lampanti di tale trasformazione

Ma nonostante questo aspetto “artificiale” qusto luogo è divenuto un vero simbolo della città, un punto di incontro per i residenti e visitatori di tutto il mondo.

Prima di andar via, non poteva mancare un ballo improvvisato di Nicole, che tratteggia le linee dell’hotel W (hotel Vela), sfondo iconico di questo tratto di spiaggia.

Finisce qui il nostro racconto di questa magnifica città. E’ stato veramente arduo sintetizzare questa città unica nel suo genere e spero di esserci riuscita.

Barcellona: tappe iconiche

Il cielo di Barcellona sfrutta ogni inezia di luce, così che possiamo affondare gli occhi in un cielo blu intenso, sempre.

Sono ritornata per la seconda volta in questa ammaliante città, questa volta in compagnia dei miei figli.

Siamo arrivati alle 17, il tempo di lasciare le valigie e siamo scivolati all’interno della città vecchia, verso il parco della Cittaduella, il cui ingresso è caratterizzato dall’Arco di Trionfo, costruito in occasione dell’Esposizione Universale del 1888 come simbolo di benvenuto. Tra l’arco ed il parco la gente passeggia, ma soprattutto si ferma ad osservare gli artisti che si esibiscono in tutta la loro creativita’.

Con largo anticipo avevamo programmato alcuni ingressi a monumenti storici della città, i cui biglietti spesso vanno sold out. Così il giorno dopo siamo entrati all’interno della straordinaria ed iconica Sagrada Família, il capolavoro incompiuto dell’architetto Antonio Gaudí. Questa basilica unica nel suo genere è uno dei simboli più riconoscibili di Barcellona e rappresenta un esempio straordinario dell’architettura modernista catalana.

L’architettura è intrisa di simbolismo religioso e naturale, con riferimenti alla natura, alla geometria e alla spiritualità. I lavori di completamento continuano ancor oggi, mantenendo viva la visione di Gaudí e rendendo questo monumento una continua evoluzione dell’arte e della creatività umana.

Il percorso della visita alla basilica incomincia ovviamente dalla Facciata della Natività. Una facciata barocca, ricchissima di sculture e simbologie: qui l’elemento dominante è la vitalità, l’allegria, la bellezza.

A differenza delle facciate, traboccanti di storia, l’interno, pur sempre simbolico, è essenziale. La protagonista assoluta è la luce, che filtra tra le colonne, leggermente inclinate, come in un bosco incantato, poiché esse hanno la forma di alberi i cui rami, in alto, come delle possenti mani, sostengono l’intera struttura.

La tonalità dei colori cambia in continuazione, in base alla posizione del sole, dai colori più freddi alla mattina, ai colori accessi, giallo e rosso, alla sera, quando il sole si sposta ad occidente.

Ad occidente si trova la facciata della Passione, a conclusione della vita terrena di Gesù. Le sculture sono volutamente scarne e spigolose e trasmettono una grande sofferenza e tristezza. Non c’è spazio in questa facciata per gli abbellimenti barocchi, per l’allegria.

Subito dopo la Sagrata Familia ci siamo avviati al Palau de la Música Catalana, un gioiello architettonico e culturale situato nel cuore di Barcellona. Questo meraviglioso edificio rappresenta uno dei capolavori dell’architettura modernista catalana e offre una esperienza unica per gli amanti della musica, dell’arte e della bellezza architettonica.

Costruito tra il 1905 e il 1908, il Palau de la Música Catalana è un omaggio all’arte e alla cultura catalana. È stato progettato da Lluís Domènech i Montaner, uno dei principali architetti modernisti della città. Una delle caratteristiche più spettacolari del palazzo è la sua sala da concerto principale. All’interno, un’esplosione di colori e forme, grazie all’uso creativo di vetrate colorate, mosaici e sculture decorative. Il soffitto vetrato a forma di cupola rappresenta un sole splendente, che irradia luce e calore su tutto l’auditorium.

Nel pomeriggio avevamo programmato la visita a Casa Batlló. E’ un vero e proprio viaggio nella mente del visionario architetto catalano che ha disegnato la silhouette di questa città rendendola così unica e sensuale. Non vi aspettate una classica visita, piuttosto un invito ad esplorare l’universo attraverso la luce e il  colore, i protagonisti assoluti di Gaudí.

Spettacolare e senza precedenti la sintesi digitale realizzata dall’artista Refik Anadol per illustrare come il mondo interiore di fantasia e tumulto si sia trasformato in architettura moozzafiato.

E’ impossibile non restare affascinati da questa città dal blu intenso, che avvolge ogni cosa.

E se capiteranno, talvolta, giorni dell’inquietudine, riguarderò queste foto straripanti di blu, riavvolgerò all’infinito i video girati, mi ricorderò dei vostri baci e abbracci.

Con amore mamma.

Il Monastero di Montserrat

Se siete appassionati dei nostri racconti, saprete che amiamo viaggiare nel periodo autunnale o in primavera, dove l’affluenza turistica è minore e si riesce a godere meglio delle bellezze del territorio. Ma ora che le ragazze stanno diventando più grandi, una settimana di assenza durante la scuola media ha un peso diverso e diventa sempre più difficile conciliare i nostri viaggi con la danza ( passione di entrambe le ragazze) ed il recupero delle lezioni scolastiche. Per tale ragione quest’anno abbiamo deciso di conciliare la chiusura scolastica di Pasqua con il viaggio a Barcellona.

Devo ammettere che non siamo stati delusi dalla nostra scelta, Barcellona ci ha accolti con la sua forte presente e personalità. La Pasqua qui è molto sentita e si festeggiata per le strade, avvolti da un’atmosfera carica di emozioni.

Abbiamo dedicato un’intera giornata alla visita del Monastero di Montserrat, un importantissimo sito di pellegrinaggio della Catalogna, incastonato sul fianco di una montagna a circa 700 metri sul livello del mare. Il monastero è circondato da una catena di montagne davvero uniche dalle forme più disparate che sembrano proteggerlo dall’alto.

Da Barcellona abbiamo preso il treno per Aeri de Monserrat, dove si sale a bordo della funivia che in soli 5 minuti vi lascerà a pochi metri dal monastero. L’esperienza in funivia è spettacolare, si arriva quasi a sfiorare la roccia delle montagne, passandoci attraverso.
Ad un certo punto ho pensato che la roccia la prendessimo in pieno! E’ un’esperienza adrenalinica che ovviamente mette a dura prova chi come me soffre di vertigini, ma le cabine della funivia sono sicure e stabili.

L’attesa per salire sulla funivia è stata veramente lunga, 2 ore o poco più. Tantissimi spagnoli accanto a noi, che hanno approfittato della festa per raggiungere il santuario. I motivi per venire qui sono veramente i più diversi: pellegrinaggio trekking natura, ricerca di spiritualità o solo per una gita fuori porta.

Una volta scesi dalla funivia ci siamo presi tutto il tempo necessario per ammirare i dintorni dall’alto e scattare qualche foto. Ho immaginato il monastero coperto totalmente dalla nebbia e dal cielo plumbeo durante l’inverno o immerso nell’oscurità della notte. E mentre scrivo chiudo gli occhi nuovamente e mi lascio trasportare dal ricordo di quel luogo, ricco di mistero.

Il complesso comprende fra le altre cose una splendida basilica, che custodisce la statua della Vergine Moreneta di Montserrat. Secondo la leggenda, la statua in legno della madonna fu ritrovata nell’800 da alcuni bambini che pascolavano il gregge. Si tratta di una delle statue della Madonna Nera più famose nel mondo. Il Vescovo della vicina città di Mausera, venuto a sapere del ritrovamento, organizzò il trasporto della statua (alta non più di 90 cm), ma, a sorpresa, essa rimase immobile. Tale prodigio fu interpretato come segno della volontà della Beata Vergine di rimanere nei pressi del luogo e il vescovo ordinò immediatamente la costruzione del Santuario. Da quel momento prese vita il culto della Vergine di Montserrat.

La destinazione montuosa è attraversata da sentieri escursionistici, da cui si può apprezzare il bellissimo paesaggio circostante, e cercare, la veduta del monastero più spettacolare. Noi però a metà percorso siamo tornati indietro, le gambe non ci sostenevano più.

Ci sono posti che bastano da soli a riempire ore e ore, a farne il punto esatto in cui sei pronto a stare. Ma ciò che rende speciale ogni luogo e ogni momento, è la capacità di rendere ogni luogo quello giusto, ogni momento quello esatto per godersi ogni momento della vita.

Nel prossimo racconto, alcune tappe di Barcellona da non perdere  🙂

Borghi più belli d’Italia: Presicce.

Quando si parla del Salento, nella mente proiettiamo immagini legate a spiagge sabbiose e acque cristalline, ma il Salento è anche borghi e paesi dove respirare il vero spirito pugliese, fatto di tradizioni, storie e sapori. Tra i borghi più belli d’Italia c’è Presicce.

Non appena giungi nel centro storico di Presicce, sei accolto da scorci pittoreschi, vicoli e piazzette che ti catapultato in un’atmosfera d’altri tempi che raccontano la doppia anima di questo luogo, una gentilizia e l’altra contadina.

Ci sono molti palazzi ben conservati, ma essendo di proprietà privata, la maggior non è visitabile all’interno, se non in alcune giornate dedicate, come “Presicce in mostra”.

Possiamo però ammirare le facciate dei palazzi, ingentilite da cornici e archi cinquecenteschi, lungo tutto il tragitto che ci porta sino a Casa Turrita, uno degli edifici storici più particolari del borgo. Edificato nel XVI secolo come parte integrante del sistema difensivo dell’abitato, presenta ancora alcuni elementi originali, come le feritoie, e si distingue per la facciata decorata in bugnato a punta di diamante.

Il Palazzo Ducale, nato su un fortilizio normanno del 1500, è viistabile. Nei secoli ha subito diversi interventi, non da ultimo quello del 1630, in cui la principessa D. Maria Cito Moles volle l’aggiunta della loggia, dei giardini pensili e di una nuova cappella palatina.

Attualmente il Palazzo ospita al suo interno il Museo della Civiltà contadina, riunendo gli attrezzi da lavoro utilizzati da contadini, falegnami, ciabattini e muratori presiccesi. Salendo uno scalone del 1700, al primo piano, si trova una ricostruzione della tipica casa contadina con camera da letto, un telaio e la cucina.

Una volta terminata la visita al museo, senza uscire dal palazzo è possibile raggiungere i giardini pensili da cui si gode la vista sulla Chiesa Madre e Palazzo Villani.

Ci sono voluti solo tre anni (1778-1781) per costruire e inaugurare la Chiesa matrice. In stile tardo barocco, decisamente più sobrio rispetto a quello leccese, è stata costruita su una vecchia chiesa del 1500 (di cui rimane l’antica torre campanaria). Come in molte chiese del Salento, anche in questa vi è un altare dedicato a S. Oronzo che ha protetto questa terra dalla peste del 1656.

Davanti all’ingresso della Chiesa Madre si trova la Colonna di S. Andrea, dedicata al patrono e costruita nel ‘600. Le quattro statue ai lati, tre delle quali acefale, rappresentano le quattro virtù cardinali: Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza. La statua non è rivolta verso la chiesa, ma verso Santa Maria di Leuca, antica via dei pellegrinaggi, forse come forma di protezione.

La colonna racconta anche una storia d’onore e di sangue. Pare infatti che nel XVII secolo il Signore dell’epoca obbligasse le novella spose a passare con lui la prima notte di nozze, lo Ius Primae Noctis. Ma nel 1655, durante i festeggiamenti del Carnevale, il principe si affacciò alla finestra del Castello per salutare i cittadini e ad attenderlo vi era anche un uomo mascherato che deciso a vendicare l’oltraggio subito dall’amata, gli sparò un colpo, uccidendolo.

Questo sarebbe il motivo per cui gli abitanti di Presicce, sono conosciuti in tutto il Salento con il soprannome di Mascarani.

Il Salento, si sa, è da sempre una delle culle privilegiate dell’olio e Presicce, grazie al suo ottimo extravergine d’oliva, si è aggiudicato il titolo di Città dell’Olio.

Di fatto il vero tesoro del borgo, quello che lo rende unico nel suo genere, è rappresentato dal sottosuolo dove si sviluppa un sorprendente dedalo di frantoi ipogei – noti anche come trappeti a grotta– che conservano ancora oggi gli antichi torchi e macine con cui, tra il XIII e gli inizi del XX secolo, si produceva l’olio “lampante che dal porto di Gallipoli partiva ad illuminare le strade di mezza Europa.

Dei ventitré frantoi in attività, oggi ne restano diciassette alcuni dei quali sono stati recuperati, come il frantoio di via Gramsci e quelli sotto piazza del Popolo, risalenti al XIV secolo.

Scoprirete che i pozzi di decantazione dell’olio funzionavano grazie al principio dei vasi comunicanti e che la temperatura in inverno all’interno dei frantoi era sempre mite e costante, intorno ai 18-20°, grazie anche alla fermentazione delle olive e al calore prodotto dalle lampade ad olio che funzionavano ininterrottamente e dalla fatica degli uomini e degli animali.

La nostra giornata è proseguita alla scoperta delle casine di campagna. Eleganti edifici a due piani, funzionali all’economia agricola del tempo e utilizzati anche come residenza. Presentano portali e scenografiche scalinate con elementi decorativi di derivazione napoletana o di ispirazione spagnola.

Solo 16 km separano Presicce da Santa Maria Di leuca, così decidiamo di rotolare verso sud, sino ad arrivare nel punto più a sud di tutta la regione, dove il mar Adriatico incontra il mar Ionio e godere di un tramonto pennellato da mille sfumature di rosso. Siamo a punta Ristola.

In questa lingua di terra si apre la Grotta del Diavolo. Una grotta che deve il suo nome alle sue particolari caratteristiche: è buia, l’accesso dal piano di capestio è particolarmente ripido, ma soprattutto al ruggito delle onde che si infrangono.

Il Salento è ricco di tradizioni popolari, enogastronomia, borghi nascosti che invitano a un turismo slow e ha ritrovare il proprio ritmo lento e noi amiamo perderci in questa lingua di terra.