Sasso di Castalda è meta di tanti turisti che desiderano vivere l’emozione di attraversare uno tra i ponti tibetani più alti e lunghi del mondo. Qui, nell’aprile 2017, proprio a due passi dal centro storico del paese, lì dove si apre il cosiddetto “fosso Arenazzo”, sono stati inaugurati due ponti tibetani di grande effetto scenico: il primo, lungo 95 metri e sospeso ad una altezza di trenta metri circa, il secondo – detto della luna in onore di Rocco Petrone, nato a Sasso di Castalda che lavorò alla Nasa – è lungo 300 metri ed è sospeso a 102 metri di altezza.
La nostra domenica è stata particolarmente fredda, con un fortissimo maestrale pronto ad avvolgerti in una folata, appena lasciavamo la parete di roccia che avevamo a protezione. Il “ponte della Luna” era chiuso, mentre sul ponte più piccolo vi erano alcuni avventurieri, che fluttuavano letteralmente in aria. Intorno a noi il paesaggio meraviglioso della Val d’Agri e sotto di noi 102 metri di vuoto e natura, visibili dalla terrazza sky-walk in vetro.
Sasso di Castalda, piccolo borgo arroccato su una rupe con le sue antiche case di pietra, riserva ben più di una sorpresa, tra i saliscendi delle sue stradine e le sue piazzette, in un’atmosfera d’altri tempi.
Pittoresca la zona della Manca, uno dei quartieri più antichi di Sasso di Castalda dove è ben visibile la stretta connessione tra i suoi edifici e lo strato roccioso su cui poggiano. In questo quartiere che conduce alla Chiesetta della Madonna delle Grazie, una delle aree più suggestive del borgo, viveva la popolazione più povera.
Sulla collina che si erge a poca distanza dal borgo, sorge un‘oasi faunistica dove vivono esemplari di cervi in semilibertà. Un posto bucolico, ma dei cervi nemmeno l’ombra.
A Sasso di Castalda, inoltre, si trova una delle faggete, definita da molti, tra le più belle d’Italia: la faggeta di Costara, ad oltre 1000m di altitudine. Un luogo magico, infuocato dai colori dell’autunno. Gli alberi sono enormi e l’effetto ottico della profondità è impressionante, difficile tradurlo con una fotografia. All’interno dell’area boschiva si erge il faggio di San Michele, il più anziano tra gli alberi secolari. Sono più di 300 anni che è sempre lì, ma nonostante le nostre ricerche, non siamo riusciti a trovarlo. Sicuramente eravamo a pochi passi, volteggiando tutt’ intorno.
Il Sottobosco è veramente pulito e tra le foglie silenziose si percepisce il battito sommesso della vita.
La Basilicata è una delle regioni che amiamo, tutta da scoprire, terra di bellissimi paesaggi naturali, dove le tradizioni popolari regnano incontrastate.
Arrivare al castello 🏰 di Monteserico non è stato semplice, nonostante alcune indicazioni abbiamo percorso una strada abbastanza sconnessa, che aveva però in sé il fascino di essere la strada più solitaria di tutte, lungo una terra rarefatta, di case silenziose e sparse.
Il castello emerge solitario dai campi gialli. Una fortezza di epoca normanna, anche se alcune tracce fanno pensare a fondamenta più antiche. La costruzione conobbe il suo massimo splendore grazie a Federico II che amava soggiornare qui per la presenza di uccelli rapaci, che tanto adorava.
Meraviglioso è il panorama, con la valle che corre verso l’infinito.
Un’abitante di Genzano ci coinvolge con la sua narrazione evocativa di questi luoghi durante la Riforma agraria, l’assegnazione delle case coloniche e dei terreni che, però, non sortirono gli esiti sperati. L’isolamento dei poderi, la limitata o mancata costruzione di infrastrutture, di opere per l’irrigazione e la mediocre qualità di molti territori determinarono ben presto l’abbandono dei fondi assegnati con la conseguente emigrazione, che lasciò le case coloniche e i borghi rurali dimenticati nell’oblio. Quest’uomo sognatore e dall’animo nobile e’ ancora qui.
Ci spostiamo ad Irsina, che dalla sua posizione domina incondizionata su tutta la Valle del Bradano. Il nome Irsina è stato dato solo nel 1895, prima il paese si chiamava Montepeloso, dal greco plusos, terra fertile e ricca.
Il centro storico è costruito su uno sperone di roccia, circondato dalle antiche mura di cui sopravvivono due torri cilindriche e due porte: la Porta Maggiore e la Porta Lenazza. Anche qui come Matera si trovano abitazioni scavate direttamente nella pietra, un tempo semplici ricoveri e successivamente vere e proprie case-grotte in cui vivevano in promiscuità uomini e bestie. L’ingresso dalla Porta Maggiore ci porta in una piazzetta con un Belvedere affacciato sulla Valle del Bradano da cui è possibile abbracciare in un colpo d’occhio l’estensione dei seminativi che circondano il paese, di un giallo oro intenso.
Accanto a queste antiche abitazioni si incontrano anche eleganti palazzi signorili con stemmi ed epigrafi, testimoni del passato nobiliare della città. Molti di questi palazzi sono oggi nell’elenco dei luoghi del FAI, in attesa di essere valorizzati.
La Cattedrale della città risale al 988 ed è stata oggetto di più ricostruzioni. Molti sono gli elementi preziosi della chiesa, ma su tutti spicca la scultura di Santa Eufemiain pietra. Si presenta con una mano nelle fauci del leone come simbolo del martirio, mentre nell’altra sorregge un triplice monte sormontato da un castello che rappresenterebbe proprio Montepeloso. È un pezzo raro attribuito al Mantegna e giunto a Irsina grazie alla ricca donazione di un notaio originario di queste parti.
Da non perdere nella visita ad Irsina la cripta della Chiesa di San Francesco.
Si pensa che la Chiesa anticamente fosse un castello costruito da Federico II di Svevia, uno dei tanti sparpagliati fra Puglia e Basilicata. Non ci sono però prove a testimonianza di questa leggenda. La cripta conserva un bel ciclo di affreschi commissionati tra il 1370 e il 1373 ad artisti di scuola giottesca da Margherita D’Angiò e da sua figlia Antonia Del Balzo, futura regina di Sicilia (entrambe ritratte tra i personaggi affrescati).
La cappella è molto interessante sia per gli aspetti artistici, che testimoniano i molteplici influssi di scuola fiorentina, sia per le vicende storiche legate alla cripta, dal momento della fondazione alla riscoperta, avvenuta ai primi del ‘900, grazie allo storico Michele Janora e all’intervento della Contessa Margherita Nugent.
Su consiglio di un abitante di Irsina, ci dirigiamo verso Tricarico, per il raduno delle maschere Antropomorfe.
A differenza della maggior parte delle feste religioso-popolari, che in seguito sono state assorbite e trasformate dalla religione cristiana, questo evento si distingue per il mantenimento del suo spirito tipicamente pagano, che risuona potente tra le danze. Numerosi studiosi collegano questa festività alle antiche tradizioni dei Saturnali romani, ma è certo che le sue radici affondano ancor più profondamente nelle antiche celebrazioni legate alla fertilità dei campi. Con l’uso di colori vibranti e costumi sfarzosi, le comunità cercano simbolicamente di comunicare con la natura, invocando la vitalità dormiente che attende sotto il gelido mantello invernale. Il festival di Tricarico, da oltre 12 anni, si pone come punto di incontro di queste feste e riesce a richiamare gruppi di comunità sia italiani che esteri: Bolivia, Portogallo, Romania Spagna, Africa. Dalla nostra amata Puglia vi erano i gruppi di Sammichele di Bari, Corato e Lecce.
Addentrandoci per le vie di Tricarico, scopriamo l’importanza strategica di questo luogo e della sua Torre Normanna, punto più alto e più suggestivo della città, da cui era possibile osservare e controllare militarmente un territorio vastissimo.
Il centro storico custodisce dei tesori insospettabili, tra edifici di inestimabile valore e importanti manufatti. Nel nostro girovagare un abitante ci ha condotti alla Chiesa di Santa Chiara, una delle chiese più suggestive di tutta la collina materana, con un soffitto ligneo con intagli in oro zecchino ed una cappella completamente affrescata da Pietro Antonio Ferro, considerato uno dei più importanti artisti della Basilicata del 1600.
La Basilicata è una terra veramente bella, ancora poco assediata dal turismo, ideale per un viaggio nell’Italia più autentica, tra arte, storia e natura, a costi ancora economici.
Immagina di passeggiare nella natura e che questa, silente e placida, si rispecchi nel lago. Immagina che il lago sia la bocca di un antico vulcano spento. Immagina poi pioppi, cerri, faggi e roveri alti, dai tronchi enormi sotto i quali ti senti piccolissimo. Immagina una abbazia eretta su una grotta e foglie scricchiolanti sotto le scarpe.
Non serve immaginare se sei ai laghi di Monticchio.
Così una domenica di ottobre decidiamo di raggiungere L’Abbazia di San Michele, situata sul Monte Vulture.
L’antichissimo culto dell’Arcangelo Michele fu importato in Italia meridionale dai Longobardi che, spintisi fin qui, fondarono i principati di Benevento e di Salerno erigendo in questo territorio numerose chiese consacrate alla devozione del Santo. La grotta naturale, a picco sul lago, fu consacrata a luogo di culto dato che, secondo la tradizione, qui l’Arcangelo Michele apparve più volte alle popolazioni. Anni dopo, nella grotta dell’Arcangelo iniziarono a riunirsi prima i Monaci Basiliani, in fuga dalla dottrina della Chiesa Bizantina, poi i Benedettini, per frenare l’espansione della chiesa ortodossa. Questi ultimi fecero edificare l’abbazia, abbandonandola poi nel 1456. Ci fu un tempo, dunque, in cui a Monticchio convivevano, due ordini di fede, molto diversi per riti e principi dogmatici. Solo dopo l’affermazione politica e militare dei Normanni, i Basiliani abbandonarono gradualmente il Vulture e e l’Abbazia passò ai Cappuccini, che fondarono una biblioteca e un lanificio.
Oggi, il complesso abbaziale si articola su più piani, con la chiesa settecentesca e l’antichissima cappella di S. Michele, appoggiata al suolo roccioso della primitiva grotta, in cui vi sono numerosi affreschi di epoca bizantina e medievale. All’Abbazia si accede percorrendo un sentiero petroso immerso nella foresta di faggi e lecci e dalle sue finestre si gode di un bellissimo panorama sui laghi sottostanti.
Intorno ai laghi vi sono numerosi sentieri. Noi avendo poco tempo a disposizione abbiamo percorso quello attiguo all’Abbazia, che in 20 minuti porta al belvedere.
La vista che si gode a questa altezza non è priva di inconvenienti per chi soffre di vertigini, ma è ad ogni modo incantevole. Così abbiamo steso una tovaglia e ci siamo rilassati in un dolce picnic.
Il sentiero non è molto tracciato, infatti c’è stato un attimo in cui abbiamo messo in dubbio la possibilità di avanzare, per alcuni tronchi caduti di recente che ostacolavano la salita. Il terreno inoltre non è molto compatto, per cui nella discesa questo spesso franava un pò, sotto i nostri passi. Ma niente di preoccupante. Arrivati nuovamente all’Abbazia abbiamo intrapreso il percorso naturalistico che porta giù al lago piccolo.
I Laghi di Monticchio sono parte di una Riserva Regionale della Basilicata, una zona naturalistica molto piacevole da visitare. Si tratta di due laghi, sorti occupando l’area di due antichi crateri di quello che un tempo era un vulcano, circondati da una natura verdeggiante ed incontaminata.
Per godere dell’oasi di pace abbiamo noleggiato un pedalò dalla banchina del Lago Piccolo e siamo rimasti sospesi in quelle acque dalle 50 sfumature di verde.
Il tempo sembra fermarsi ❤️.
L’Abbazia si vede in tutto il suo splendore, aggrappata alla parete della montagna, bianca, imponente, elegante, incastonata nella parete del monte, che sovrasta i laghi, e in questi si riflette giocando con le nuvole.
Una bellissima passeggiata autunnale che consiglio a tutti.
Prima del rientro non poteva mancare una visita al Castello di Melfi, che al suo interno ospita l’interessantissimo Museo Archeologico Nazionale.
La Basilicata fu una terra che Federico II apprezzò molto e in cui soggiornava spesso per le sue amate battute di caccia. Il Castello di Melfi, sebbene sia stato costruito dai suoi predecessori normanni, divenne fulcro dell’attività amministrativa del suo regno, per poi diventare dei Doria fino al 1950 e poi di proprietà dello stato italiano. La struttura ha una unica entrata agibile con un ponte che dà sul vasto fossato. Una volta ammirata la maestosità del castello si può accedere al museo, con un ticket di 2,50 euro. Le sale del museo custodiscono numerosi reperti archeologici ritrovati nella zona del Vulture, in particolare corredi funerari di guerrieri e nobili. Lasciano davvero a bocca aperta, sia per lo sfarzo che regnava all’epoca tra le genti nobili, sia per l’importanza che si dava alla fase della sepoltura. Insomma una full immersion culturale nella splendida cornice del Castello di Melfi che vi emozionerà sicuramente. La Basilicata è anche questo
Inizia così il nostro viaggio a Pietrapertosa con l’associazione Murex ed il racconto di Mimmo Sammartino, che fissa sulla carta i racconti popolari, quelle storie che un po’ tutti noi abbiamo ascoltato, perché non si perdano nel tempo.
Sono storie di “masciare”, donne che conoscevano l’arte della magia e della fascinazione, del mistero delle parole e dei segni, che si ungevano con l’olio fatato raccolto dalla cavità di un albero d’ulivo e lo custodivano in una pignatta di terracotta e poi attraversavano in volo la notte. Una favola, che racchiude il rigore antropologico, l’amore per le proprie radici, l’emozione poetica, ma anche il viaggio alla ricerca di sé.
Il percorso delle 7 pietre è un progetto che recupera un antico sentiero contadino di circa 2 km, che collega i Comuni di Pietrapertosa e Castelmezzano e si sviluppa su quote variabili. Il percorso trae ispirazione dal racconto di Mimmo e prevede alcune installazioni multimediali, non tutte funzionanti al nostro arrivo, purtroppo.
Da Pietrapertosa scendiamo lungo il percorso delle 7 pietre, con piccole pause dedite all’ascolto della storia, ai profumi, alla natura, ma anche ad un buon caffè e un dolce buonissimo con marmellata di limoni, tutto rigorosamente prodotto da Alessia e Nico.
L’arrivoaCastelmezzano è decisamente scenografico, da cartolina. Il paese compare improvvisamente adagiato alla parete rocciosa.
Il borgo medievale di Castelmezzano, che dall’alto guarda la sua gemella Pietrapertosa, fu fondato nel X secolo da un popolo in fuga. Secondo la leggenda, un semplice pastore scoprì tra i pascoli un luogo nascosto, protetto da rocce e ricco di sorgenti d’acqua e si trasferì qui con il suo gregge. Ben presto altri pastori fecero altrettanto, per proteggersi dalle incursioni dei Saraceni e dagli eserciti in guerra tra loro. Fu così che nel X d.c., sorse il nucleo del nuovo paese.
Tra le cose da vedere a Castelmezzano ci sono i resti del fortilizio Normanno-Svevo, con la sua gradinata stretta e ripida scavata nella roccia, che porta nel punto più alto, dove la vedetta della guarnigione militare sorvegliava la sottostante valle del Basento.
All’ombra del castello abbiamo fatto la pausa pranzo, condividendo una pizza rustica fatta con le erbe selvatiche e del vino aglianico, che non poteva mancare.
Il centro storico di Castelmezzano è un susseguirsi di piccole viuzze, palazzi nobiliari, chiesette, panorami mozzafiato e piccoli locali. Qui tutto sembra una bomboniera e per le strade si respira un’aria di festa e di leggerezza. E con la leggerezza riconquistata nella mente e nel corpo abbiamo intrapreso il viaggio di ritorno, più spediti rispetto a prima, ma più consapevoli.
La risalita a Pietrapertosa, il paese più alto della Basilicata, posto a 1.088 metri sul livello del mare, è stata veramente faticosa, ma ampiamente ricompensata. Questo piccolo gioiello ospita poco meno di 1.000 abitanti.
La parte più antica del borgo si trova alle pendici del Castello ed è nota come Arabat, dall’antico nome saraceno. Gli arabi, arrivarono a Pietrapertosa insieme al principe Bomar, si insediarono in queste casette in pietra che erano comunicanti fra loro attraverso aggrovigliati cunicoli, strade e scalini tipici, anch’essi scavati nella roccia. La particolarità di queste abitazioni è che sono costruite in modo da essere un tutt’uno con le pareti di roccia, tanto che spesso si possono notare case le cui pareti sono rappresentate dalla roccia stessa, o viceversa. Tutto è in armonia con la natura che lo circonda.
La roccia, la rupe, gli strapiombi solitari e il castello sono gli elementi dominanti a Pietrapertosa. Il borgo si sviluppa lungo un’unica strada principale dove si possono notare case signorili con portali di pregio, iscrizioni, decori, e simboli, che testimoniano le famiglie nobili di un tempo in città.
ll Castello Normanno-Svevo è un sistema fortificato che risale all’epoca romana e divenne importante all’epoca dei normanni nel IX secolo. È situato sulla cima della roccia su cui si aggrappa la parte alta dell’abitato, il quartiere dell’Arabata. Ma la cosa più bella è proprio il panorama spettacolare che si gode da qui sù. Una vista eccezionale sulla Valle del Basento fatta di boschi verdeggianti, limpidi torrenti, forme strane di roccia disegnate dal vento e dalle piogge.
Questo è un luogo magico, ed allo stesso tempo colmo di storia e di fascino.
Una ragazza del paese, volontaria del Fai, ci ha deliziato con il racconto di una tradizione popolare vissuta da tutta la comunita: U’ Masc. che si ripete da decenni in occasione dei festeggiamenti dedicati a S. Antonio da Padova.
Una festa che si basa su un antico rito pagano di primavera per festeggiare la fertilità e la fecondità, una specie di cerimonia di nozze simboliche tra due alberi che un corteo di boscaioli va a tagliare nel bosco e poi porta in paese per unirli tra loro ed adornarli. Il matrimonio avviene tra un tronco di cerro e una cima. Qui, i massari attendono le prime luci dell’alba, momento in cui lo sposo e la sposa, trasportati da coppie di animali, si avviano nella lunga marcia, davanti al campanile del Convento di San Francesco. Lo spettacolo si svolge sotto gli occhi della folla che assiste con apprensione alla fase di innalzamento e alla spettacolare scalata dell’albero da parte di un “maggiaiolo”. Durante la festa vengono distribuiti i “biscotti degli sposi” preparati sapientemente a mano dalle donne del paese, durante la notte che precede.
Molti visitatori, arrivano a Pietrapertosa anche per provare l’esperienza adrenalinica del volo dell’angelo. Confesso che mi sono venute le vertigini solamente ad alzare gli occhi al cielo. Ma è spettacolare anche solo osservarlo.
Questo trekking, seppur faticoso(22.200 passi) conferma ciò che penso della Basilicata: terra stupenda, ancestrale, capace di offrire esperienze uniche, dove il tempo sembra essersi fermato, fissando nella pietra ciò che è stato.
Grottole è un borgo a 30 km da Matera, sopravvissuto a terremoti e crolli.
Il nome evoca le “grotticelle”, locali ancora visibili lungo le pendici del paese ed utilizzati dagli artigiani per plasmare dall’argilla vasi e brocche.
Tante salite, tante discese. Su e giù per vicoli e stradine. Ogni tanto uno spiazzo e uno sguardo giù nella vallata.
Una porta accanto all’altra.
Qui si conoscono proprio tutti. Straordinarie abitudini di vita ormai perse nella nostra corsa folle contro il tempo.
Simbolo di Grottole, la Chiesa Diruta, senza dubbio uno dei monumenti più spettacolari di questa magnifica regione.
Questa magnifica opera si presenta scoperta verso il cielo e le stelle, perché priva di cupola, fragile nella sua incompiutezza, ma nel contempo altera nella sua mole. Resta un gioiello ignoto.
Da alcuni punti del paese e scendendo lungo i suoi pendii è possibile ammirare tutt’intorno l’intera valle ed il lago di San Giuliano, un lago artificiale costruito alla fine degli anni ’50 con lo sbarramento del fiume Bradano, al fine di utilizzare le sue acque in agricoltura.
Il lago che si è venuto a formare è lungo circa 10 chilometri e presenta insenature suggestive Il panorama è spettacolare: una lingua azzurra che si estende nella verde valle.
Ci sono posti che non si dimenticano e dove il tempo scorre lento.
Possono essere posti romantici e suggestivi, caotici e disordinati, solitari e silenziosi.
La Basilicata per me era una terra sconosciuta. Ma poi sono arrivati i racconti di una persona cara e ho scoperto uno di quelli che ora definisco luoghi del cuore.
Ci sono stata decine di volte, eppure la sua bellezza non stanca mai. Matera è meraviglia pura, una bellezza unica al mondo.
Per capire meglio la storia di Matera ed emozionarvi vi consiglio di farvi accompagnare da una persona del posto. La nostra guida è stata Giusi, una donna che ama profondamente la sua terra.
La storia ci narra che i Sassi, fino agli anni ’50, sono stati il simbolo del degrado sociale, un cratere in cui uomini e donne vivevano all’interno di grotte insieme agli animalI, in una situazione di totale assenza di salubrità. Carlo Levi fu tra i primi ad accendere i riflettori sulla città e a scuotere le coscienze.
Con la sua celebre opera, “Cristo si è fermato ad Eboli”, denunciò le condizioni in cui viveva la popolazione materana e diede inizio ad un inaspettato e incredibile processo di rivalutazione.
Nel maggio 1952 venne promulgata la Legge per lo sfollamento dei Sassi, che prevedeva la costruzione di nuovi quartieri popolari, distanti dal centro storico, dove gli abitanti furono costretti a trasferirsi. Nel 1993 iniziò con vigore il riscatto sociale ed architettonico della città, riscattando l’immagine c ad essere una delle mete turistiche più apprezzate nel Mondo.
I Sassi di Matera sono un insediamento rupestre abitato sin dal paleolitico, che rappresenta un esempio emblematico di abitazione concepita in perfetta armonia con il paesaggio. Originariamente gli uomini utilizzarono le grotte naturali e successivamente impararono a trasformarle in base alle proprie esigenze, sino ad arrivare a creare dei veri e propri vicinati.
La piazza su cui si affacciavano queste case, scavate nella collina, su più livelli, era il luogo della condisione della cura dei bambini e degli anziani, il luogo in cui si mettevano in comune le conoscenze e le abilità.La casa aveva una camera multifunzione, adibita allo stesso tempo a luogo di soggiorno, cucina, camera da letto mentre sul fondo spesso vi era spazio per il magazzino e gli animali. Il livello di igiene era davvero scarso e le conduttore di scarico erano a cielo aperto.
Nel nostro tour lungo il sasso Barisano, ci siamo fermati alla Chiesa rupestre di sant’Antonio Abate, dove siamo stati accolti da Eustachio, un signore ottantenne, con il cuore e la mente carichi di un passato che non vuole dimenticare. Ha suonato per noi la Cupa Cupa, strumento musicale che suona da più di 60 anni, intonando una canzone legata alla tradizionale uccisone del maiale. Seppur per pochi attimi queste canzoni aiutavano a nascondere i problemi legati alle dure condizioni di vita.
Ed era festa per tutti.
A pochi km da Matera siamo riusciti ad ammirare un gioello, nascosto in una grotta: La Cripta del Peccato Originale.
Il nome è dovuto al ciclo di affreschi dipinti tra l’VIII e il IX secolo che culminano con episodi della creazione. Incredibilmente vivida è l’immagine di Eva generata dalla costola di Adamo.
Gli affreschi sono caratterizzati da un prato di fiori rossi eleganti e raffinati, i cisti, fiori tipici dell’altopiano murgiano che hanno dato al luogo un secondo nome: la Cripta del Pittore dei Fiori di Matera.
Non ci siamo lasciati scappare l’occasione di visitare Craco, il paese fantasma della Basilicata, così suggestivo da togliere il fiato. Silenzio, strade vuote, nuvole che si muovono all’orizzonte e qualche asinello solitario fanno da cornice alle case aggrappate alla collina.
Craco è stata costruita in un territorio fragile, formato da rocce argillose dove l’acqua ha scavato nel tempo grandi fessure. Nel 1963 una frana e pochi anni dopo, un terremoto, portarono gli abitanti ad abbandonare il paese.
Nel 2011 il comune di Craco ha istituito un piano di recupero del borgo vecchio. Infatti accompagnati da una guida è possibile visitare, in sicurezza, la città che, con i suoi resti, ha ancora tanto da raccontare.
Craco si trova a ridosso di un’area selvaggia caratterizzata da alte montagne di argilla, alcune sono più grandi altre più piccole, circondate da una scarsa vegetazione di arbusti e cespugli. È un posto quasi surreale, silenzioso, avvolto da un’atmosfera di immensa tranquillità: sono i Calanchi.
La nostra giornata è terminata con una brevissima sosta a Pisticci e il suo belvedere, in cui si stagliano, in netto contrasto con le case bianche a valle, gli archi del rione Terravecchia.
Le case a valle, tutte bianche con i tetti rossi, sono esempio unico nel suo genere di architettura spontanea contadina. In una notte dell’inverno del 1688, una incredibile nevicata provocò una frana che fece sprofondare due interi quartieri di Pisticci.
Al rifiuto degli abitanti di abbandonare i luoghi del disastro si decise che sul terreno della frana si sarebbero ricostruite le nuove abitazioni.
Nel popolo lucano è radicato un forte legame con la sua terra. Legame che abbiamo trovato a Matera con il suo riscatto collettivo, a Craco e Pisticci nella scelta di non abbandonare la terra, seppur fragile.
Questo legame trova la sua espressione anche nella cucina. Non a caso i piatti più rappresentativi della Basilicata nascono da ricette figlie della cultura contadina.
Ogni lembo di questa terra ha un passato da raccontare. Un passato a volte difficile che raccoglie in sé la forza del riscatto, della consapevolezza, dell’amore.