Calabria on the road: 2° parte.

ll rientro in Puglia si colora ulteriormente raggiungendo Borgo Croce, una frazione di Fiumara (Reggio di Calabria), risorto grazie alla street art e all’amore dei paesani.

Il cambiamento parte dall’idea di Maria Grazia Chirico, valorizzare il borgo con i murales, in ricordo della madre appena scomparsa. L’idea piace ai concittadini che, nel 2020, intraprendono un lavoro volto a ridisegnare la bellezza sopita del borgo.

Le pareti delle abitazioni, non solo diventano tele per i murales ma anche pergamene su cui annotare e riprodurre antichi proverbi.

E’ domenica e le vie sono abitate da un silenzio surreale. Girovagando per il borgo, incontriamo la signora che realizza saponette con l’olio d’oliva. Racconta con nostalgia, di un tempo che fu, di un paese autosufficiente con l’allevamento e la macellazione del bestiame.

Oggi molti di loro sono anziani, privi di auto, ed attendono l’arrivo settimanale dei generi alimentari che prenotano nei paesi a valle. Ma nonostante le difficoltà hanno un compito comune: mantenere viva l’eredità di Borgo Croce.

Da borgo Croce ci spostiamo su Monte Sant’Elia di Palmi, un balcone, da paura, sospeso tra cielo e mare.

Un’antica leggenda calabro-sicula racconta della lotta vittoriosa di Sant’Elia col diavolo. Si narra che il Santo ogni giorno cercava di portare avanti la costruzione del Convento, ma il diavolo di notte diroccava le mura. Uno giorno il santo lo scaraventò, nel mare sottostante, su una roccia, dove sono ancora visibili le sue impronte. Altri aggiungono, che il demonio, vedendosi vinto, tornò a tentarlo, promettendogli che non l’avrebbe disturbato, purché gli avesse permesso di avere un suo rifugio, nel punto in cui il Santo (creduto debole eremita) avrebbe lanciato il bastone, a cui si appoggiava. Ma Sant’Elia miracolosamente lanciò il proprio bastone nell’estremo limite del mare visibile, cioè al posto di Stromboli. Il demonio fu costretto ad allocarsi in quel punto, eruttando ripetutamente lave, fumo, e scuotendo tutta questa regione, con frequenti terremoti e sinistri boati.

Ultima meta di questo viaggio on the road, la città simbolo della Calabria nel mondo, meta già nel settecento di aristocratici europei, nel loro Grand Tour: Tropea.

La leggenda vuole che il fondatore sia stato Ercole quando, di ritorno dalle battaglie delle Colonne d’Ercole (attuale Gibilterra), si fermò sulle coste del Sud Italia, e su questa rupe depositò i suoi trofei in latino trophaeum, da qui il nome della città Tropea.

Per la sua caratteristica posizione di terrazzo sul mare, Tropea ebbe un ruolo importante, sia in epoca romana, sia in epoca bizantina; molti sono i resti lasciati dal bizantini, come la chiesa sul promontorio o le mura cittadine (chiamate appunto “mura di Belisario”).

Il centro storico di Tropea è in alto, a circa 70 metri sul mare, in un dedalo di vicoli, stradine, chiese, palazzi nobiliari, terrazzi panoramici e incredibili scorci sul blu del mare che all’improvviso si aprono passeggiando.

Il Santuario di Santa Maria dell’Isola, detto anche Isola Bella, è uno dei gioielli di Tropea e di tutta la costa, sia per la sua posizione, su di uno scoglio a strapiombo davanti alle Isole Eolie, sia perché è uno di luoghi di culto più importanti della zona, ricco di leggende. Un tempo isolato dalla terra ferma, l’isolotto divenne un rifugio per eremiti, ma in seguito, a causa del terremoto del 1783 e dell’onda anomala che ne conseguì, l’isola si unì all’arenile tropeano.

Si racconta che nel paesello giunse una statua lignea della Vergine dall’oriente. Il popolo scese al lido e le più alte cariche decisero di custodire la statua all’interno di una grotta naturale, presente nella rupe. La statua, purtroppo, risultava troppo grande rispetto alla grandezza della nicchia, così si decise di segare le gambe. Questa decisione ebbe conseguenze nefaste sia per il falegname che per coloro che avevano dato il consenso.

Le leggende raccontano anche di miracoli avvenuti su un masso posizionato a metà delle scale di accesso al santuario. All’interno della chiesa è molto sempice e custodisce la Sacra Famiglia, realizzata nel ‘700. Queste statue vengono calate a spalla su di un peschereccio ogni anno per la processione della Madonna Assunta del 15 agosto.

Al tramonto eravamo nel giardino del Santuario: il sole dolcemente calava nel tirreno e nitidamente si scorgevano le isole di Vulcano, Stromboli e perfino l’Etna.

La bellezza di Tropea è innegabile, ma dopo aver assaggiato la semplicità di alcuni borghi, ascoltato le storie di chi è rimasto o ha deciso di ritornare, Tropea mi è sembrata troppo convertita alla vacanza di lusso, con strade che brulicano di insegne di B&B e di ristoranti, anzichè di storia.

A parte questa nota, il viaggio in Calabria è stato meraviglioso. Questo lembo di terra è entrato a pieno titolo tra i luoghi del cuore, per la l’accoglienza, per la storia, per i sapori, per la bellezza e per i suoi tramonti che difficilmente potremo dimenticare.

Calabria on the road: 1° parte

Abbiamo capito sin da subito che l’auto è il mezzo migliore e più comodo per visitare la Calabria. Per cui siamo partiti di buon ora alla scoperta di questa lingua di terra e dei suoi luoghi così paradisiaci, ancora poco valorizzati.

In questo articolo ripercorreremo le prime tappe del nostro on the road:

  • Castello di San Fili
  • Pentadattilo
  • Reggio Calabria
  • Scilla

Il percorso sino alla provincia di Reggio Calabria meritava una piccola sosta e così ci siamo fermati al Castello di San Fili. Il palazzo sorge su un promontorio, come una sentinella che da secoli osserva il mutare del tempo. Costruito tra il 1710 e il 1720 dal capitano Giuseppe Lamberti, si incastona perfettamente tra il cielo ed il mare e le ampie finestre del piano nobile offrono incantevoli vedute, trasformando ogni sguardo in un dipinto.

Dal Castello ci siamo diretti a Pentadattilo (che ha un racconto tutto suo-https://rondinelleinviaggiofamily.blog/2025/02/01/pentedattilo-alla-ricerca-della-felicita/) e siamo scivolati verso Reggio Calabria per “conoscere” i Bronzi di Riace, esposti al Museo Archeologico Nazionale. Ritrovati in mare nel 1972 da un sub romano, i Bronzi raffigurano due uomini nudi, giovani e forti, risalgono probabilmente al V secolo a.C.

Le due opere sono state a lungo al centro di una sorta di giallo archeologico: forse affondarono con una nave oppure furono gettate in mare, nel tentativo di alleggerire il carico e scongiurare un naufragio. Quest’ultima sembra l’ipotesi più attendibile, dato che nel luogo del ritrovamento non c’era traccia dei resti dell’imbarcazione e neppure di altri oggetti. I Bronzi sono diventati le statue-simbolo, l’espressione del concetto di bellezza sviluppatosi in Grecia, quella maschile, che si identificava con l’armonia di un corpo muscoloso, capace di esprimere forza, vigore e salute.

Per iniziare la nostra passeggiata a Reggio Calabria, dopo il museo, ci siamo recati al Lungomare Falcomatà, definito anche “il chilometro più bello d’Italia”. La bellezza di questo kilometro è leggendaria. La vista che qui si può ammirare sullo stretto di Messina, aulla Sicilia e sull’Etna lascia a bocca aperta. Lungo questo scorcio, che i reggini definiscono “le tre marine”, c’è la possibiltà di ammirare edifici, monumenti, piazzette, sculture e scavi archeologici, per conoscere un pò meglio la città. La passeggiata nella storia è resa più gradevole dal gelato di Cesare, una delle migliori gelaterie d’Italia, un famoso chioschetto verde situato qui da oltre 100 anni.

Ad impreziosire questo lembo di terra ci sono tre spledide sculture umanoidi dell’artista Rabarama, installate nel 2007, che danno le spalle alla villa, stile neo-liberty, come altri edifici ristrutturati/ricostruiti dopo il terremoto del 1908.

Non mancano gli affacci sul mare, fra questi la spettacolare Arena dello Stretto, monumento storico della città, fortemente ispirata a quella dell’antica tradizione magnogreca. All’estremità la statua bronzea della dea Athena, a difesa della città. Con un’ampia gradinata semicircolare, l’Arena si presta a eventi, manifestazioni teatrali, musicali e mostre fotografiche, come quella di Letizia Battaglia, che abbiamo avuto la fortuna di ammirare. L’artista ha immortalato la Sicilia come mai nessuno aveva osato.

Proseguiamo il nostro tour per Scilla, che fa parte della cosidetta Costa Viola, per via del colore che le acque assumono in determinate ore del giorno. Il fatto che questo borgo sia legato alla mitologia greca, più precisamente dall’Odissea di Omero, lo rende ancora più suggestivo. Scilla era una ninfa che aveva rifiutato l’amore di Glauco, il Dio marino, metà pesce e metà uomo. Questo, si rivolse alla maga Circe, innamorata di lui, per far cadere Scilla tra le sue braccia, ma Circe, invidiosa, la trasformò in un mostro marino con sei teste di cane. Da quel momento Scilla andò a nascondersi in una grotta dello stretto divorando e terrorizzando i malcapitati naviganti, inclusi i compagni di Ulisse.

Grotte, mostri marini e sirene sono le leggende per spiegare i mulinellli, gorghi e vortici nelle acque dello stretto di messina che rendevano difficile la navigazione delle fragili imbarcazioni di un tempo.

Tutta la costa è sovrastata dall’imponente Castello dei Ruffo, che sorge sulla rocca e che prende il nome del famoso mostro omerico. Il Castello fu dimora del Conte Paolo Ruffo, il quale dominò il feudo di Scilla dal 1523, difendendo il borgo dal Pirata Barbarossa. Da questa rocca si apre un suggestivo panorama sulle Isole Eolie e sulla costa siciliana.

Dalle spiagge di Scilla seguendo un piccolo percorso a piedi è possibile raggiungere Chianalea di Scilla, il pittoresco borgo di pescatori, completamente avulso dalla realtà che lo circonda. Le case di Chianalea sono costruite direttamente sugli scogli e sono separate da strette viuzze che chiamano verso il mare. Man mano che scendi l profumo del mare diviene intenso e gli scorci poetici.

La pesca rimane uno dei tratti caratteristici del borgo, nonché la sua attività principale, in particolare quella del pesce spada che continua a farsi con i “luntri”, le tipiche imbarcazioni a remi, o con le più moderne “passarelle”, barche a motore con l’antenna d’avvistamento.

In questo quartiere abbiamo avuto la fortuna di ascoltare le storie di pescatori, che abitano queste case quasi sospese sull’acqua, intenti a sistemare le loro reti. Scilla, insieme a Palmi e Bagnara erano famose per la pesca del pesce spada, che veniva tramandato di padre in figlio. Il pesce spada rappresentava anche un vanto della cucina locale. Ora però sono in pochi a proseguire questa tradizione. I ragazzi hanno fatto altre scelte e la normativa, la burocrazia ed i costi non aiutano i pochi che sono rimasti.

Nonostante queste considerazioni non del tutto rosee dell’economia, Chianalea è un gioiello che merita di essere visto almeno una volta della vita. Davanti alle case che si sposano con le acque puoi osservare, ascoltare, sognare un tempo perduto, che torna quotidianamente, portato dalle onde.

Pentedattilo: alla ricerca della felicità.

Capita di scoprire con gli anni che la felicità non è qualcosa che si trova, che non ha niente di dovuto, che è a tutti gli effetti qualcosa che si crea. E’ un concetto semplice che tendiamo a dimenticare perchè non siamo “allenati” a gestirla, a maneggiarla e a contenerla.

Vi raccontiamo il nostro viaggio in Calabria, tre giorni in cui siamo stati travolti da un’immensa fortuna, abbiamo conosciuto i custodi di un tempo, quello lento che governa le giornate, le conversazioni ed elogia la semplicità.

Tutto parte da un video-documentario sulla storia di Rossella, unica abitante di un paese, Pentedattilo, sconosciuto persino ad alcuni calabresi. Inizia la mia ricerca sul borgo, che si trova a pochi km da Reggio Calabria. Ad avvolgerlo un’imponente montagna rocciosa a forma di cinque dita, da cui deriva il suo nome. Le case sono perfettamente incastonate tra le rocce e custodiscono la memoria del borgo e le leggende che vi ruotano attorno.

Per secoli teatro di violente lotte feudali e devastanti terremoti, questo piccolo centro negli anni Settanta fu dichiarato inagibile e i suoi abitanti si trasferirono poco più a valle. Da allora è un “borgo fantasma”, raggiungibile a piedi da una stretta stradina di pietra che si snoda lungo il costone di roccia, tra pale di fichi d’India e cespugli di macchia mediterranea. 

Chi arriva qui, fa una passeggiata veloce, scatta due foto, compra una calamita e poi va via. Ma c’è molto di più, basta semplicemente stare in silenzio e questo vi parlerà.

Entrando nel borgo si incontra subito la bottega artigiana di Giorgio e di sua moglie e mentre ci perdiamo nel loro mondo colorato Giorgio ci racconta storie, leggende del paese ma anche della sua vita, dei suoi ruoli come attore.

A Pentedattilo non ci sono ristoranti, trattorie o cose simili, ma esistono luoghi genuini che profumano e sussurrano.

Abbiamo finalmente incontrato Rossella, e siamo stati suoi ospiti su una terrazza affacciata nel blu. Quello che è successo nelle due ore successive, per noi è stato semplicemente un privilegio: pranzare all’aperto, con una coppia di Cuneo (lei originaria di Reggio Calabria), gustare prodotti genuini, tutto in ascolto delle storie di ognuno, in totale condivisione.

E poi Rossella, la custode più preziosa di Pentedattilo. La sua storia è una di quelle storie raccontate nei documentari, perchè quando negli anni ’80 Rossella ha deciso di lasciare Viterbo e trasferirsi in Calabria, in questo borgo sperduto e disabitato, poteva sembrare davvero da pazzi. Per lei no, per Rossella tutto è avvenuto in modo naturale. E da allora non l’ha più lasciato, restituendo al borgo di Pentedattilo un’anima. Lo ha fatto lei, lo ha fatto chi ha aperto le botteghe artigiane, chi ha iniziato a fare ospitalità diffusa.

Ci racconta che all’inizio erano in tre nel paese e le campagne erano rigogliose e incontaminate. Ogni mattina camminava costeggiando le fiumare in cerca di erbe officinali. Le abbondanti piogge invernali e primaverili consentivano di irrigare i campi e abbeverare gli animali anche d’estate. Si addormentava cullata dal canto della fiumara, mentre l’acqua scorreva incessante. Ma in questi ultimi due anni il territorio si sta desertificando e nella stagione secca il piccolo orto di Rossella va avanti a fatica, pur garantendole la sussistenza.

Dopo il pranzo abbiamo raggiunto Maka, un ragazzo maliano che aiuta Rossella nel lavoro dei campi e nell’accudimento delle sue venti capre. La luce del tramonto è divenuta irresistibile, come tutto il paesaggio circostante.

Rossella nella sua scelta di vita ha trovato la propria “capacità” di creare felicità ed essere stati suoi ospiti è stato veramente un dono, che non dimenticheremo.

Vedi Napoli e poi muori!

Napoli è verace, chiassosa, allegra, aperta, piena zeppa di genti, contradittoria, ma con un patrimonio culturale pazzesco. Abbiamo adorato sin da subito questa città e appena possiamo torniamo ammaliati dalla sua atmosfera.

Dopo una breve passeggiata, partiamo alla scoperta dei Quartieri Spagnoli, la zona a più alta densità abitativa della città. Durante il periodo della dominazione spagnola (parliamo del 1500) le truppe militari si stabilirono sulla collina che oggi ospita i Quartieri. La posizione era ideale, in primis perché vicina al Palazzo Reale, e poi perché, grazie alla pendenza della collina, i soldati riuscivano a sedare le rivolte popolari facendo colare olio bollente sulle strade.

Saliamo per via Toledo, la via in cui passeggiavano i signori spagnoli, oggi rinomato luogo dello shopping, che attrae sia napoletani che i turisti. La strada riflette le diverse identità di Napoli, essendo storiamente un punto di incontro tra quartieri popolari e zone nobili. Infatti mentre i signori passeggiavano su Via Toledo, i militari nei Quartieri Spagnoli passavano il loro tempo libero tra prostitute e gioco d’azzardo.

Alla fine del 1800, con l’arrivo del colera, Napoli venne ricostruita e gli edifici storici vennero sostituiti da quelli nuovi, sempre più alti, che portarono il quartiere all’espansione, sino alla collina del Vomero, inglobando giardini e conventi.

Tutto il quartiere è un mercato continuo, un susseguirsi di viuzze dal fascino decadente in cui la luce filtra con parsimonia tra i palazzoni che sfoggiano con orgoglio i panni stesi sui balconi. Vi sono botteghe di frutta, verdura, di generi coloniali, di salami e di formaggi, tutto in strada, al sole, alle nuvole e alla pioggia.

In questo luogo ti guida il profumo del cibo. Difficile scegliere dove fermarsi. Entriamo in un alimentare. Prima di noi un ragazzo compra una scamorza, “ vai vai, domani me li dai, non ti preoccupa’”. Nicole trova quel comportamento alquanto strano. Come fa ad essere sicuro che tornerà a pagare quella scamorza? Beh, ci sono ancora paesi in cui la parola è ancora importante, le spiego.

Scendiamo sino al mercato della Pignasecca, che prende il nome da una leggenda, secondo cui in questa zona c’era un fitto bosco di pini abitato da gazze ladre. Un giorno una gazza rubò l’anello al vescovo di Napoli, che era venuto nel bosco per ricongiungersi di nascosto con la sua perpetua. Il vescovo, per vendetta, scomunicò tutte le gazze. Dopo pochi giorni la pineta seccò e le gazze volarono via, lasciando quel luogo divenuto ormai arido e quindi conosciuto come “la Pignasecca”.

Raggiungiamo Via Vetriera, dove si trova l’antica fabbrica di cioccolato, “Gay Odin”. E’ la maestra di Giada che ci consiglia di gustare la foresta nera, che dopo un centinaio di anni continua ad essere il pezzo forte di questa storica ciccolateria.

Il lungomare di Napoli è il luogo ideale per questa prelibatezza. Una passeggiata da togliere il fiato: il sole che si riflette sull’acqua, il Vesuvio sullo sfondo, il profilo dell‘isola di Capri in lontananza.

Con un biglietto da € 1,30 saliamo su una terrazza panoramica. Si tratta dell’ascensore Monte Elia. Per scoprire una nuova Napoli, quella che non ti raccontano nelle guide turistiche.

Al calar del sole la città si tinge di una luce color senape, mentre il cielo inizia a mutare, tingendosi di sfumature color albicocca.

Vedi Napoli e poi muori!. Un detto che tuttora si perde tra gli scorci particolari e meravigliosi di Napoli, che spiega le emozione travolgenti che questa città è in grado di innescare.

Non hai bisogno di nient’altro.

Pompei.

Complice uno spettacolo al teatro Verdi di Salerno, abbiamo deciso di tornare in Campania per due giorni.

Siamo arrivati di prima mattina a Pompei e abbiamo atteso che si formasse un gruppo di 10 persone per cominciare la nostra visita guidata. Impossibile visitare l’intero insediamento in poche ore, per cui si cerca di focalizzare l’attenzione su alcuni siti precisi.

Pompei è una delle destinazioni italiane più conosciute al mondo. Il suo Parco Archeologico, dal 1997 patrimonio Unesco, è una meta imprescindibile per chi vuole scoprire la maestosità e la ricchezza di una tipica città romana.

I primi insediamenti risalgono infatti all’età del Ferro. Da subito, Pompei s’impone come un importante polo commerciale del Mediterraneo, dotandosi in poco tempo di un sistema di fortificazioni, palazzi, templi e strutture pubbliche. L’epoca romana fu quella che consacrò Pompei come “residenza di villeggiatura” per i nobili patrizi.

Il 24 agosto del 79 d.C. Pompei venne completamente distrutta da un’eruzione lavica. La città fu completamente seppellita sotto uno strato di 3 metri di cenere e lapilli, una catastrofe di proporzioni gigantesche che colpì anche le aree circostanti come Ercolano.

Cercheremo di descrivere alcuni dei siti del parco visitati, in questa occasione:

1. Casa Ceii: particolari scene di caccia con animali selvatici sono dipinte sulla parete di fondo del giardino, oltre alla presenza di paesaggi egittizzanti con pigmei ed animali del Delta del Nilo.

Riproduzioni che suggeriscono il forte legame del proprietario della domus con il mondo egizio e con il culto di Iside particolarmente diffuso negli ultimi anni di vita di Pompei.

All’interno sono riproposti parte degli allestimenti originari della dimora, con la risistemazione del tavolo in marmo e della vera di pozzo nell’atrio, in cui sono visibili i calchi di un armadio e della porta di ingresso.

Grandi spazi verdi, un lussuoso quartiere termale privato e vivide decorazioni, ci attendevano anche nel complesso dei Praedia di Giulia Felice.

2. Casa del Menandro: più che una casa è una enorme villa, di quasi 1800 m². La cosa inusuale è che il corpo centrale è stato costruito a un livello superiore rispetto a quello del cortile con il forno e i sotterranei e a quello dell’ergastulum, il quartiere riservato ai servi.

In un corridoio sotto il piccolo atrio della casa, nel 1930, gli archeologi addetti agli scavi rinvennero un tesoro straordinariamente ricco, per l’epoca archeologica a cui i beni si riferiscono, per i materiali di pregio con cui furono eseguiti, cioè oro e argento e per le capacità artistiche dei romani particolarmente in quel periodo. Il tesoro, per un totale di 84 kg, tra vasellame, oltre gioielli e monete, è conservato presso il Museo Nazionale Archeologico di Napoli.

3. Il Foro: è senza dubbio nel cuore pulsante della città. Gli antichi abitanti si recavano qui per accedere agli edifici principali della città e per partecipare alle manifestazioni religiose.

4. Le lupanare. Pompei è conosciuta anche come la città del vizio. Infatti, i pompeiani non presentavano problemi a ostentare le loro passioni e spesso le case erano dotate di stanze segrete dove le schiave esaudivano i desideri dei ricchi romani. L’edificio più conosciuto era il Lupanare: un edificio di due piani, ciascuno con 5 celle, ognuna fornita di un giaciglio di pietra su cui venivano sistemati dei materassi. La cosa curiosa è che il percorso per la struttura era indicato nelle vie della città da segnali a forma di fallo.

5. Villa dei Misteri: collocata in un’area più esterna del sito, si trova una delle ville patrizie più famose del posto, probabilmente la dimora di Livia, moglie dell’Imperatore Augusto.

Nella stanza del Triclinio, figure a grandezza naturale sono impegnate nei preparativi di un rito, ancora poco chiaro. Alcuni sostengono si tratti di un rito dionisiaco, altri semplicemente di un matrimonio. La Villa include anche una struttura termale e stanze suddivise per ambienti di servizio e residenziali.

6. Calchi: una delle testimonianze più eclatanti di tutto il sito archeologico, sono i 13 corpi rinvenuti ( per la precisione calchi in gesso) che cercavano di salvarsi dalla terribile eruzione del Vesuvio. Una testimonia drammata degli ultimi attimi di vita degli abitanti di Pompei.

I corpi sono rimasti sepolti in 9 metri di cenere per oltre 1900 anni! Nel 1863 il direttore degli Scavi, venne avvertito dagli operai che avevano incontrato una cavità, in fondo alla quale si scorgevano delle ossa. Ordinò che si arrestasse il lavoro, fece stemperare del gesso, che venne versato in quella cavità. Grazie alla tecnica utilizzata è stato possibile ricreare quel corpo all’interno della cavità e vedere le espressioni angosciate e addolorate di uomini, donne e bambini. Con questi calchi Pompei rivive la tragedia, un fermo immagine degli ultimi momenti di vita di un’intera popolazione.

Pompei non smette mai di sorprendere. Ogni anno, nuove scoperte aggiungono un tassello al mosaico della conoscenza ed è sempre affascinante ritornare. Dopo tutto si tratta della nostra storia 🙂

50 sfumature di verde: laghi di Monticchio.

Immagina di passeggiare nella natura e che questa, silente e placida, si rispecchi nel lago. Immagina che il lago sia la bocca di un antico vulcano spento. Immagina poi pioppi, cerri, faggi e roveri alti, dai tronchi enormi sotto i quali ti senti piccolissimo. Immagina una abbazia eretta su una grotta e foglie scricchiolanti sotto le scarpe.

Non serve immaginare se sei ai laghi di Monticchio.

Così una domenica di ottobre decidiamo di raggiungere L’Abbazia di San Michele, situata sul Monte Vulture.

L’antichissimo culto dell’Arcangelo Michele fu importato in Italia meridionale dai Longobardi che, spintisi fin qui, fondarono i principati di Benevento e di Salerno erigendo in questo territorio numerose chiese consacrate alla devozione del Santo. La grotta naturale, a picco sul lago, fu consacrata a luogo di culto dato che, secondo la tradizione, qui l’Arcangelo Michele apparve più volte alle popolazioni. Anni dopo, nella grotta dell’Arcangelo iniziarono a riunirsi prima i Monaci Basiliani, in fuga dalla dottrina della Chiesa Bizantina, poi i Benedettini, per frenare l’espansione della chiesa ortodossa. Questi ultimi fecero edificare l’abbazia, abbandonandola poi nel 1456. Ci fu un tempo, dunque, in cui a Monticchio convivevano, due ordini di fede, molto diversi per riti e principi dogmatici. Solo dopo l’affermazione politica e militare dei Normanni, i Basiliani abbandonarono gradualmente il Vulture e e l’Abbazia passò ai Cappuccini, che fondarono una biblioteca e un lanificio.

Oggi, il complesso abbaziale si articola su più piani, con la chiesa settecentesca e l’antichissima cappella di S. Michele, appoggiata al suolo roccioso della primitiva grotta, in cui vi sono numerosi affreschi di epoca bizantina e medievale. All’Abbazia si accede percorrendo un sentiero petroso immerso nella foresta di faggi e lecci e dalle sue finestre si gode di un bellissimo panorama sui laghi sottostanti.

Intorno ai laghi vi sono numerosi sentieri. Noi avendo poco tempo a disposizione abbiamo percorso quello attiguo all’Abbazia, che in 20 minuti porta al belvedere.

La vista che si gode a questa altezza non è priva di inconvenienti per chi soffre di vertigini, ma è ad ogni modo incantevole. Così abbiamo steso una tovaglia e ci siamo rilassati in un dolce picnic.

Il sentiero non è molto tracciato, infatti c’è stato un attimo in cui abbiamo messo in dubbio la possibilità di avanzare, per alcuni tronchi caduti di recente che ostacolavano la salita. Il terreno inoltre non è molto compatto, per cui nella discesa questo spesso franava un pò, sotto i nostri passi. Ma niente di preoccupante. Arrivati nuovamente all’Abbazia abbiamo intrapreso il percorso naturalistico che porta giù al lago piccolo.

I Laghi di Monticchio sono parte di una Riserva Regionale della Basilicata, una zona naturalistica molto piacevole da visitare. Si tratta di due laghi, sorti occupando l’area di due antichi crateri di quello che un tempo era un vulcano, circondati da una natura verdeggiante ed incontaminata.

Per godere dell’oasi di pace abbiamo noleggiato un pedalò dalla banchina del Lago Piccolo e siamo rimasti sospesi in quelle acque dalle 50 sfumature di verde.

Il tempo sembra fermarsi ❤️.

L’Abbazia si vede in tutto il suo splendore, aggrappata alla parete della montagna, bianca, imponente, elegante, incastonata nella parete del monte, che sovrasta i laghi, e in questi si riflette giocando con le nuvole.

Una bellissima passeggiata autunnale che consiglio a tutti.

Prima del rientro non poteva mancare una visita al Castello di Melfi, che al suo interno ospita l’interessantissimo Museo Archeologico Nazionale.

La Basilicata fu una terra che Federico II apprezzò molto e in cui soggiornava spesso per le sue amate battute di caccia. Il Castello di Melfi, sebbene sia stato costruito dai suoi predecessori normanni, divenne fulcro dell’attività amministrativa del suo regno, per poi diventare dei Doria fino al 1950 e poi di proprietà dello stato italiano.
La struttura ha una unica entrata agibile con un ponte che dà sul vasto fossato. Una volta ammirata la maestosità del castello si può accedere al museo, con un ticket di 2,50 euro. Le sale del museo custodiscono numerosi reperti archeologici ritrovati nella zona del Vulture, in particolare corredi funerari di guerrieri e nobili. Lasciano davvero a bocca aperta, sia per lo sfarzo che regnava all’epoca tra le genti nobili, sia per l’importanza che si dava alla fase della sepoltura. Insomma una full immersion culturale nella splendida cornice del Castello di Melfi che vi emozionerà sicuramente.
La Basilicata è anche questo

Francavilla Fontana.

Secondo la leggenda, nel 1310, mentre il principe di Taranto Filippo d’Angiò guidarva una battuta di caccia, un uomo al suo seguito adocchiò un cervo intento ad abbeverarsi ad una fonte. Quando costui mirò con l’arco e scoccò la freccia, il cervo cambiò rotta scagliandosi contro. Incredulo, chiamò il principe e scoprirono, nascosta in un cespuglio, un’effige della Vergine con il bambino fra le braccia. L’avvenimento portò alla creazione di una piccola chiesetta per il culto della Vergine, oggi la Chiesa Madre.

Per favorire il popolamento della zona circostante, Filippo I dichiarò permesso di franchigia, da cui nacque il nome Villa Franca.

Tra cupole, palazzi storici e graziose piazze è veramente piacevole vagabondare nel centro storico di Francavilla Fontana e ritrovarsi all’interno del Castello imperiale.

Quello che ammiriamo oggi è frutto di numerosi rimaneggiamenti avvenuti nel corso dei secoli: il risultato è un palazzo metà fortezza e metà dimora gentilizia, circondato da maestose mura. La famiglia degli Imperiali, principi illuminati e mecenati molto conosciuti, rese la cittadina un importante centro e luogo d’incontro di culture e di arti.

Dall’atrio si acceda ad un’antica cappella di Santa Maria delle Grazie, dove si possono ammirare affreshi, ritornati alla luce dopo un lavoro di scrostamento da vecchi intonaci presenti sulle pareti e sul soffitto.

Dal maestoso portone entriamo e saliamo lungo la scalinata che porta al piano superiore dove è possibile ammirare il loggiato di stile barocco, ricamato con i motivi che raffigurano foglioline, rami di palma, grappoli d’uva, rosette e vitigni che si avvolgono sinuosamente.

I vani del piano nobile si dispongono intorno all’ambiente più importante di tutto l’edificio: la sala del camino, con una sontuosa volta coperta interamente da un affresco. Al centro il dio Apollo guida un carro alato tirato da quattro cavalli e un guppo di splendide Muse che danzano.

Il portone aperto di un palazzo storico, risalente al ‘700, ci invita ad entrare: è la sede di uno storico circolo. All’interno, il presidente ed un socio ci raccontano i fasti del palazzo, le vetrate che si aprivano per i balli, i giochi d’azzardo che allietavano le loro serate. Un circolo forse destinato a scomparire perché non si è modernizzato, ma che ha conservato i drappi, la luce, il calore di un tempo.

La graziosa cittadina, con un centro storico riqualificato, ha una bella zona pedonale, ricca di negozi alla moda e di pasticcerie, da cui escono vassoi danzanti per il pranzo della domenica e la mente torna ad un tempo in cui ogni nostra domenica era coccolata dai pasticcini di Verna.

Con il naso all’insù, mi lascio sorprendere dai baconi finemente decorati dei palazzi, dai portoni, dalle vecchie insegne che ancora campeggiano qua e là. Direi che avere il naso all’insù è uno status mentale e fisico che mi accompagna sempre 🙂

Torre Guaceto: un triste ritrovamento

Situata nel territorio di Carovigno, a pochi chilometri da San Vito dei Normanni e Ostuni, questo tratto di costa, di zona umida e macchia mediterranea è molto frequentata durante i mesi estivi, grazie alla possibilità di accedere alla spiaggia e alle numerose attività che la riserva dedica, ma anche durante i mesi invernali è altrettanto affascinante e tutta da scoprire.

L’area è accessibile anche in autonomia, basta lasciare l’auto ai varchi del parco e procedere a piedi o in bici, camminando per i sentieri in terra battuta, oppure tra le dune, fino alla bella torre fortificata cinquecentesca che costituisce il cuore della riserva.

Noi abbiamo deciso di passeggiare tra le dune ed il percorso ci ha riservato piacevoli incontri. Abbiamo assistito agli ipnotici movimenti degli ultimi stormi, pronti alla migrazione, i quali con le loro evoluzioni alate disegnavano nuvole e onde nel cielo e abbiamo ascoltato suoni e sussurri della natura ai quali non siamo più abituati a dare ascolto.

Purtroppo c’è anche un’altra “lettura” di quello che abbiamo trovato sulla spiaggia: non parliamo solo di plastica e degli altri rifiuti trasportati dalle onde, ma di quelli lasciati dall’uomo consapevolmente. All’interno di una duna, dietro alcuni arbusti, decine di cassette di polistirolo, utilizzate durante la pesca. Cosa ci fanno cassette di polistirolo all’interno di una riserva naturale?

Purtroppo siamo stati testimoni anche di un triste ritrovamento: due esemplari di Caretta Caretta, che erano sullo stesso lembo di spiaggia, a poca distanza l’una dall’altra. Abbiamo avvertito immediatamente la Capitaneria di Porto, a cui abbiamo inviato la geolocalizzazione e le foto del ritrovamento. Il recupero sarebbe venuto l’indomani. Il rinvenimento ci ha lasciati amareggiati, non possiamo negare che dietro a due esemplari morti in uno stesso tratto di spiaggia c’è la mano dell’uomo.

Il Pollino solitario: canyon nella Garavina.

Ubicato nel cuore del Parco Nazionale, Terranova di Pollino, è il punto di partenza e di arrivo per una magnifica escursione nel Parco Nazionale. Ci affidiamo ad una guida esperta per il trekking, con cui avevamo appuntamento alle 9:00 del mattino.

Alle 4:00, però, la zona viene travolta da una bomba d’acqua e l’escursione sembra compromessa, ma Giovanni ci rassicura, la pioggia non ha interessato la gola, l’appuntamento è confermato.

Dal grazioso borgo scendiamo verso la Gola Garavina, una gravina di spettacolare e selvaggia bellezza, attraversata dal fiume Sarmento.

Risaliamo il fiume seguendo il corso delle acque, qui non c’è un vero e proprio sentiero da seguire, ma l’intero letto del fiume è il sentiero stesso. A seconda del tratto la guida ci indica se proseguire radenti alle pareti verticali, oppure camminare nelle gelide acque del fiume.

Un tempo la gravina faceva da sbarramento naturale ad un piccolo lago glaciale, con il tempo questo sbarramento è stato eroso dal torrente Sarmento, con un lavoro durato migliaia d’anni, che ha levigato pareti e massi creando forme spettacolari e dando luce ad un vero e proprio Canyon, con pareti rocciose che superano i 300 metri di altezza.

Sul fondo della Gola lo spettacolo che si presenta è senz’altro superiore alle aspettative: pareti verticali che si restringono, man mano che si procede verso l’interno, mentre il cielo scompare e rimane solo lo spazio per guardare verso l’alto e provare il brivido di sentirsi stretti fra le rocce e toccare le pareti lisce e fredde.

Ci fermiamo su fondo della Gravina, per una pausa pranzo veloce e la guida ci ricorda la tragedia del Raganello. Siamo nell’agosto 2018 e solo per un caso fortuito la nostra guida non era nella gola con gli altri. La tragedia, che ha scatenato polemiche sulla gestione delle allerte meteo e che ha portato all’apertura di un’inchiesta giudiziaria, è culminata nel sequestro del sito ed in un processo. Nonostante il tempo trascorso, la vicenda rimane ancora irrisolta e la ferita, per molti, non si rimarginerà mai.

Giovanni monitora il meteo e come aveva già anticipato la pioggia è attesa per le 13.00, dobbiamo ritornare indietro.

Ci aggrappiamo con le mani alle rocce scivolose e ci trasciniamo faticosamente lungo il letto del fiume. La pioggia arriva puntuale e la vegetazione pendula ci da riparo

Non bisogna essere uno specialista né tanto meno è richiesta una adeguata preparazione tecnica per affrontare questa gola, bastano indumenti comodi, scarponcini leggeri, tanta curiosità ed una guida esperta.

Il canyon è stata un’esperienza ricca di forti emozioni e con questo percorso mi sono resa conto di aver alzato l’asticella dei miei limiti fisici.

Agosto 2024

Il pittore errante: Marc Chagall.

Domenica pomeriggio, decidiamo di scoprire la mostra di Chagall, presso il Castello Conti Acquaviva D’Aragona di Conversano, che da mesi richiama gente da tutta la provincia e nonostante fossero solo le 17 del pomeriggio, c’era già coda all’ingresso.

La mostra rappresenta una straordinaria opportunità per ammirare oltre 100 opere tra dipinti, disegni, acquerelli e incisioni dell’artista. L’Amore è il fil rouge che unisce tutta la produzione di Chagall: amore per la religione, per la patria, per la moglie, per il mondo delle favole, per l’arte. La mostra, dal forte impatto emotivo, racconta un mondo intriso di stupore e meraviglia.

Nelle opere coesistono ricordi d’infanzia, fiabe, poesia, religione ed esodo, un universo di sogni dai colori vivaci, di sfumature intense che danno vita a paesaggi popolati da personaggi, reali o immaginari. Difficile discernere il confine tra realtà e sogno.        

Chagall utilizzava il disegno e colori come fossero un alfabeto per comunicare e raccontare: emozioni, affetti, sogni, paure, spesso con più vignette nella stessa scena.
Personalmente ho scoperto aspetti dell’artista che non conoscevo, ma ritengo che gli spazi dedicati siano insufficienti rispetto all’affluenza e alle opere esposte, componenti che mettevano a dura prova l’attenzione, nonostante avessimo l’audioguida.

All’uscita della mostra, un’ampia scelta di pubblicazioni e riproduzioni permette ai visitatori interessati di conoscere anche le opere del pittore non esposte.

Noi abbiamo portato a casa il nostro “bottino”😊.