La Rabatana

Rabatana è un quartiere di Tursi che deve il suo nome alla presenza dei Saraceni, che si installarono nella città all’incirca nel periodo 850-930 d.C. Il nome deriva infatti dall’arabo rabad, che significa borgo. Situato nella parte più alta dell’abitato, la Rabatana è circondata da valli e burroni, un quartiere silenziosissimo, un luogo di pace che poggia su un costone di timpa.

Facciamo la conoscenza di Salvatore Di Gregorio, che ha acquistato un’abitazione tipica nell’antico borgo. Con cura e pazienza si è dedicato alla pulizia della stessa, dopo anni di abbandono da parte dei tanti eredi, curandone l’anima e riportando alla luce le storie con cui questa casa si è nutrita per decenni.

Ha ritrovato alcuni oggetti: una piccolissima foto di una famiglia patriarcale tra le fessure di una parete; un’antichissima anfora di terracotta, attualmente oggetto di studio, che creano un forte legame con il passato, ancora presente. Conoscitore del territorio tursiano, ma non solo, Salvatore ha rinvenuto anche una serie di botroidi, particolari formazioni geologiche, che si formano per la deposizione di carbonato di calcio in sabbie e sedimenti pliocenici. Questi sassi vengono anche chiamati “pupazzi di pietra”, per la loro assomiglianza a piccole sculture antropomorfe. La casa di Salvatore è un bellissimo luogo dove perdersi, ascoltando i suoi racconti.

Nella parte più antica, oggi disabitata, si trova la chiesa di Santa Maria Maggiore, edificata nel Cinquecento sulla primitiva chiesa, costruita dai monaci basiliani nel IX secolo. La chiesa conserva vere e proprie opere d’arte tra le quali un trittico di fine ‘300 con al centro la Madonna col Bambino in trono, attribuita ad un autore fiorentino della scuola di Giotto. All’interno della cripta, decorata da splendidi affreschi, si può ammirare l’incantevole presepe in pietra scolpito attorno al 1550 dallo scultore Altobello Persio (1507-1593). È il risultato di un accurato lavoro attraverso il quale l’autore ha plasmato la materia per dare forma e colore alla Sacra Famiglia.

Basta allontanarsi un pò dalla Rabatana per imbattesi nel Convento intitolato a San Francesco D’Assisi è appartenuto all’ordine dei frati minori Osservanti. Una Bolla Papale riporta i natali della struttura al 1441, anche se al suo interno è stato ritrovato un affresco che risale al 1377. Il convento prosperò sin dall’inizio, ospitando cattedre di professori e diventando un centro culturale di enorme importanza.

Nel 1807 iniziano i primi sfortunati avvenimenti: un saccheggiamento, un incendio della biblioteca da parte dell’esercito francese di Napoleone Bonaparte e un violento terremoto nel 1857. La proprietà passò al demanio e di qui fino al 1894 divenne un cimitero. Per tutto il secolo successivo è stato oggetto di atti vandalici, a danno dei morti sepolti all’interno della chiesa, oltre che nei suoi pressi. Le ragioni che hanno spinto i responsabili a tali barbarie sono purtroppo solamente ipotizzabili.
Nel 1914 fu chiuso definitivamente ad esclusione della cappella e del campanile che vennero utilizzati fino agli anni ’60, nel giorno della festa di Sant’Antonio, durante la processione del 13 giugno.

Nonostante gli sfortunati eventi, nel 1991, grazie alla sua bellezza storica e architettonica, è stato dichiarato monumento nazionale dal ministro Ferdinando Facchiano, ma la il recupero di questo luogo sempre ancora molto lontano.

Se decidete di passare dalla Rabatana, cercate la bottega di Salvatore, vi parlerà dei segreti di questo luogo, sospeso fra spazio e tempo, custode di una civiltà perduta.


La famiglia a Cipro.

Oggi voglio raccontarvi del nostro viaggio a Cipro.

Sono passati alcuni mesi, ma parte del nostro cuore è ora lì.

L’isola di Cipro, pur trovandosi in medio oriente è un’isola europea, contesa tra due Stati, Grecia e Turchia. La parte sud è greca, la Repubblica di Cipro, al nord invece c’è il territorio occupato, dalla metà degli anni ’70, dalla Turchia, uno stato non riconosciuto dalla comunità internazionale. Seppur divisa, l’isola vive pacificamente con due culture, religioni, lingue, monete diverse e sa donare veramente tanto.

La divisione è ben visibile nella capitale Nicosia, la cosiddetta “linea verde”, che si può facilmente attraversare a piedi, passando dal check point, muniti di passaporto.

La parte greca di Nicosia è abbastanza moderna, il centro storico all’interno delle mura è un dedalo di vie che convergono in via Lidras, una lunga via pedonale piena di negozi e locali che porta al check point.

Prima di passare nella parte turca visitiamo il Museo Municipale Leventis dove sono esposti reperti archeologici, costumi, fotografie, ceramiche, mappe e dipinti che raccontano oltre 5.000 anni di storia di Nicosia. Il Museo ha una galleria dedicata a Caterina Cornaro, ultima regina di Cipro.

Tra difficoltà, insidie e congiure, Caterina governò Cipro, appena diciannovenne, per quindici anni finché, alla fine di febbraio 1489, non consegnò il regno, ereditato dal suo defunto consorte, nelle mani della Serenissima.

Il mito immortale di Caterina Cornaro è giunto fino ai giorni nostri anche grazie al corteo acqueo che ogni anno apre la Regata Storica di Venezia.

Oltrepassiamo il confine senza problemi, ma non nego di aver sentito un pò di tensione, quando mio figlio mi ha consigliato di usare il telefono in maniera discreta, poichè trattasi di una zona militarizzata, con alcune restizioni vigenti.

Tutto si placa oltrepassando la zona cuscinetto: qui le strade profumano di carne alla griglia, la gente ti avvolge con il suo vociare, il colore predominante è il giallo ocra degli edifici e il rosa acceso delle enormi bouganville. Subiamo il fascino dei mercati, delle bancarelle, piene di stoffe colorate.

Lasciamo questa parte di Nicosia troppo presto, ma con la promessa di ritornare quanto prima.

Passeggiando per la parte greca di Nicosia vi imbatterete nella bellissima chiesa di Panaghia Faneromeni, affacciata sull’omonima piazza, animata dai vari locali all’aperto. Allìinterno si possono osservare icone dorate e tanto bianco, testimonianza di uno stile misto tra chiesa romanica e neoclassica.

Ci troviamo a Cipro nella settimana pasquale, tra tradizioni secolari, un forte senso di comunità e celebrazioni che fondono spiritualità e gioia. Le Chiese sono addobbate magnificamente.

Lasciamo il centro cittadino e percorriamo le caratteristiche mura veneziane: una cinta circolare che racchiude sia la parte settentrionale che quella meridionale della città vecchia, costruita per tenere lontani dalla città gli invasori ottomani.  Le mura ospitano il Monumento alla Libertà (Monumento di Eleftheria), eretto nel 1973, che commemora la liberazione dal dominio britannico. Nella cinta muraria si aprivano tre porte ci accesso alla città, la porta più orientale e la meglio conservata è quella di Famagosta.

Cipro è una terra bellissima, di cui parlerò ancora. Ma è tempo di rientrare, Niko e Andry ci attendono a casa 🏡❤️.

Foliage a Sasso di Castalda.

Sasso di Castalda è meta di tanti turisti che desiderano vivere l’emozione di attraversare uno tra i ponti tibetani più alti e lunghi del mondo. Qui, nell’aprile 2017, proprio a due passi dal centro storico del paese, lì dove si apre il cosiddetto “fosso Arenazzo”, sono stati inaugurati due ponti tibetani di grande effetto scenico: il primo, lungo 95 metri e sospeso ad una altezza di trenta metri circa, il secondo – detto della luna in onore di Rocco Petrone, nato a Sasso di Castalda che lavorò alla Nasa – è lungo 300 metri ed è sospeso a 102 metri di altezza.

La nostra domenica è stata particolarmente fredda, con un fortissimo maestrale pronto ad avvolgerti in una folata, appena lasciavamo la parete di roccia che avevamo a protezione. Il “ponte della Luna” era chiuso, mentre sul ponte più piccolo vi erano alcuni avventurieri, che fluttuavano letteralmente in aria. Intorno a noi il paesaggio meraviglioso della Val d’Agri e sotto di noi 102 metri di vuoto e natura, visibili dalla terrazza sky-walk in vetro.

Sasso di Castalda, piccolo borgo arroccato su una rupe con le sue antiche case di pietra, riserva ben più di una sorpresa, tra i saliscendi delle sue stradine e le sue piazzette, in un’atmosfera d’altri tempi.

Pittoresca la zona della Manca, uno dei quartieri più antichi di Sasso di Castalda dove è ben visibile la stretta connessione tra i suoi edifici e lo strato roccioso su cui poggiano. In questo quartiere che conduce alla Chiesetta della Madonna delle Grazie, una delle aree più suggestive del borgo, viveva la popolazione più povera.

Sulla collina che si erge a poca distanza dal borgo, sorge un‘oasi faunistica dove vivono esemplari di cervi in semilibertà. Un posto bucolico, ma dei cervi nemmeno l’ombra.

A Sasso di Castalda, inoltre, si trova una delle faggete, definita da molti, tra le più belle d’Italia: la faggeta di Costara, ad oltre 1000m di altitudine. Un luogo magico, infuocato dai colori dell’autunno. Gli alberi sono enormi e l’effetto ottico della profondità è impressionante, difficile tradurlo con una fotografia. All’interno dell’area boschiva si erge il faggio di San Michele, il più anziano tra gli alberi secolari. Sono più di 300 anni che è sempre lì, ma nonostante le nostre ricerche, non siamo riusciti a trovarlo. Sicuramente eravamo a pochi passi, volteggiando tutt’ intorno.

Il Sottobosco è veramente pulito e tra le foglie silenziose si percepisce il battito sommesso della vita.

Sulle sponde del Lao

Abbiamo trascorso una piacevole domenica autunnale nella Valle del Lao, alla scoperta di Laino Borgo e Papasidero, due Comuni del Parco Nazionale del Pollino, immersi nella valle.

Laino Borgo è incastonato come una gemma e si snoda in un dedalo di viuzze, affrescate da una serie di murales che raccontano squarci di vita vissuta, oggetti, prodotti tipici e simboli del Paese, in una sorta di book fotografico a cielo aperto.

Il territorio è attraversato dal fiume Lao che genera un canyon profondo di circa 200 metri, rendendo il paese uno dei punti di riferimento più importanti per il rafting in Calabria. Noi abbiamo intrapreso un trekking semplice, quasi sempre costeggiando il fiume, all’inseguimento degli avventurieri del rafting, prima che questi scomparissero all’interno della gola, ingoiati dalla potenza dell’acqua. Siamo rimasti seduti sulle rocce ad ammirare l’impetuosa corrente, ascoltando il suono fragoroso dell’acqua sulle rocce, che da millenni scolpisce questi luoghi.

Fino al XVI secolo Laino Borgo era annesso a Laino Castello e formavano un solo Comune denominato semplicemente “Laino”. In una sorte abbastanza tormentata i due borghi sono stati unificati e divisi più volte a seconda delle situazioni politiche che si avvicendavano. Un’evoluzione storica che è terminata nel dopoguerra, precisamente a ottobre del 1947, con la loro scissione definitiva. 

La parte più caratteristica di Laino Castello è il suo centro storico arroccato sul colle S. Teodoro sulla cui sommità spicca il Castello Feudale: “CastrumLayni ” costruito dai Longobardi come luogo di difesa contro il nemico bizantino, divenuto, successivamente, il capoluogo di uno dei sette Gastaldati più importanti dell’Italia Meridionale. Posto su uno sperone di roccia sul punto più alto del colle, di cui oggi esistono i ruderi con bastioni speronati a torretta, adibito a cimitero comunale, gode di uno scenario incantevole e domina tutta la valle al fondo della quale scorre il fiume Lao. Qui la natura regna incontaminata.

Lasciamo Laino Castello e procediamo verso Papasidero. Raggiungiamo, dopo centinaia di curve, la Grotta del Romito, localizzata all’interno di uno stretto canyon che offriva protezione e riparo. Qui, un giorno un pastore, trova incisa su una pietra, la raffigurazione di un Uro (Bos primegenius), il più importante capolavoro figurativo che l’attività artistica del Paleolitico ha lasciato in Italia Meridionale

Correva l’anno 1961 e la notizia del toro sulla roccia si sparge velocemente, Paolo Graziosi, professore di archeologia e paleontologia all’Università di Firenze, organizza subito una missione studio. Il toro viene completamente portato alla luce e appare nella sua interezza: l’artista paleolitico aveva raffigurato con grande naturalismo il muso con le corna, l’arco del dorso, la coda e le zampe con gli zoccoli. Il tutto inciso a bulino.

L’importanza di Papasidero a livello europeo è legata alla presenza di evidenze paleolitiche, arte rupestre, sepolture (9 individui in tutto), reperti che coprono un arco temporale compreso tra 23.000 3 10.000 anni fa, ed hanno consentito la ricostruzione delle abitudini alimentari, della vita sociale e dell’ambiente dell’Homo Sapiens.

Ultima tappa di questo bel viaggio in Calabria, la chiesa di Santa Maria di Costantinopoli a Papasidero che sebbene sia stata ricostruita nel XVII secolo, testimonia ancora la presenza dei monaci bizantini, detti basiliani per distinguerli dai monaci di osservanza benedettina.

La sua architettura è una fusione armoniosa di storia e sacralità che si staglia maestosa e si fonde con l’ambiente circostante, abbracciato dal dolce riecheggio delle limpide acque del fiume Lao.

La Calabria riesce a placare la mia ricerca di bellezza nella natura e nei borghi.

Oriolo e Castroregio.

Nato come fortezza per difendersi dagli attacchi del popolo Saraceno, Oriolo è un piccolo borgo medioevale al confine con la Basilicata ai piedi del Pollino, in provincia di Cosenza. Si trova a 450 metri sul livello del mare e racchiude tra i suoi vicoli storie e piccole bellezze da scoprire: un castello, chiese e vecchi ruderi, oltre che leggende.

Simbolo incontrastato del borgo il suo Castello, che conserva intatta la struttura originaria, caratterizzata da due torri di guardia e il mastio attorno a cui si sviluppa l’intero corpo. Restaurato di recente, il castello è visitabile ed è sede di eventi e mostre presso i diversi ambienti che lo compongono: la Sala dei Banchetti, quella delle Udienze, il Salone delle Bandiere, gli ambienti militari e la preziosa Camera da Letto di Margherita Pignone del Carretto, con la cupola affrescata con un Trionfo di Apollo.

Il centro storico di Oriolo è davvero affascinante, grazie alla sua conservazione impeccabile e alla struttura medievale ancora intatta. Passeggiando si possono ammirare vari palazzi nobiliari e cappelle devozionali, costruite sia da famiglie influenti sia dall’Università del borgo.
Di fronte al castello sorge l’altro riferimento architettonico del borgo medievale, la splendida Chiesa Madre di San Giorgio. L’origine normanna dell’edificio è attestata dalla presenza dei due leoni monumentali posti a guardia dell’ingresso centrale e datati 1264. La chiesa custodisce due importanti reliquie, rispettivamente appartenute a San Giorgio e a San Francesco da Paola.

Il territorio di Oriolo è uno scrigno di sorprese nascoste, che talvolta emergono per caso, come accaduto in occasione di alcuni lavori di manutenzione che hanno riportato alla luce, a 5 m di profondità sotto l’abitato, i resti di un Convento Francescano del 1439. Abbiamo percorso il centro storico con un abitante del posto, tornato in paese con una missione: resituire alla comunità un pò di quello che lui ha ricevuto.

Con lui abbiamo esplorato il centro storico, una serie di antichi e bellissimi palazzi nobiliari ed il Museo della Civiltà Contadina, ascoltando quelle narrazioni orali che vengono tramandate e alle quali spesso si aggiungono particolari o anche stravolgimenti, ma dove si trova, alla fine quasi sempre, un fondo di verità.

Da Oriolo ci siamo spostati in cima a una delle terre più antiche e autentiche della Calabria, qui il tempo non ha fretta e la bellezza si misura con il silenzio. È Castroregio, borgo arbëresh incastonato tra rocce, cielo e vento, dove la storia cammina ancora tra i vicoli e la natura abbraccia ogni cosa. Dal belvedere lo sguardo attraversa vallate, segue le pieghe del terreno, accarezza le cime delle montagne, fino a toccare il blu del Mar Ionio.

Le tradizioni sono vive e lo senti passeggiando, ascoltando i pochi abitanti che convergono nel punto focale del paese.

Uno dei luoghi di maggior interesse è la Chiesa dedicata alla Madonna della Neve, risalente anch’essa al XVII secolo e di stile bizantino. Questa chiesa è una delle più antiche dell’intera Eparchia di Lungro.

Nella Calabria, in qualsiasi posto tu sia, senti il forte legale che c’è tra cielo, terra e mare.

Calabria da amare: San Nicola Arcella, Praia a mare, Maratea.

In Calabria ci sono tanti piccoli e deliziosi paesi che meritano di essere visitati, proprio come le gemme che si inseriscono con eleganza nella suggestiva Riviera dei Cevri. Il tempo a disposizione non è stato molto, ma ci ha ugualmente permesso di scoprire parte di questo territorio, tra panorami mozzafiato, acque cristalline e un’atmosfera tranquilla.

Abbiamo iniziato la giornata a San Nicola Arcella con la visita alla spiaggia dell’Arco Magno. Ci sono diversi modi per raggiungerla e alcune regole da rispettare: dal 2023 è stato stabilito un biglietto d’ingresso e un tempo massimo di permanenza, individuato in 20 minuti. Questa misura è stata adottata per preservare il luogo, evitando il sovraffollamento durante la stagione estiva.

La prima modalità per arrivare all’arco si snoda attraverso un percorso a piedi, di poco più di 10 minuti. Si parte con una ripida scalinata, scolpita nella roccia, per ammirare la bellissima baia di San Nicola Arcella e il mare dalle mille sfumature di blu.  In lontananza, spicca la torre Crawford e, sul promontorio, si erge il maestoso palazzo dei Principi Lanza.

Arrivati in cima, è imprescindibile fermarsi per ammirare il panorama che abbraccia il Golfo di Policastro, con l’isola Dino che si staglia maestosa di fronte. Si prosegue avvolti dalla macchia mediterranea sino a quando Inaspettatamente la costa si apre con un grande arco roccioso e il mare si stringe creando una baia, dal colore intenso.

L’acqua è limpidissima e in alcuni tratti veramente fredda, per la presenza di una sorgente di acqua dolce nella grotta situata a pochi passi dalla riva. Restiamo per un po’ distesi sulla spiaggia, a godere della tranquillità che questo posto riesce a trasmettere.

E’ arrivato il momento di visitare questo luogo anche da un’altra prospettiva, così prenotiamo una gita in barca. Da qui in avanti la costa di San Nicola si presenta particolarissima per un intervallarsi di rocce a strapiombo e acque che vanno dal blu al turchese.

La barca si avvicina all’arco, sin dove è consentito. Anche dal mare la sua bellezza non cambia.

Riprendiamo la rotta verso l’isola di Dino, la più grande delle due isole calabresi, conosciuta per le sue coste rocciose formatesi per stratificazioni laviche ma soprattutto per la “Grotta Azzurra. La particolarità della grotta nelle ore diurne è il suo colore azzurro acceso che si riflette su tutte le rocce all’interno, regalando uno spettacolo incredibile. La sosta per il bagno non poteva mancare. Il giro prosegue costeggiando il “frontone” dell’isola, per arrivare a far visita al santuario della “Madonna dei pescatori” sul lato nordest, posta qui a protezione dei pescatori e di chi va in mare. Di qui in avanti la costa si alza maestosa con pareti a strapiombo color arancio che si riflettono nel blu indaco dell’acqua. L’isola costituisce una sorta di protezione della costa, cingendola, con un mare calmo dalle correnti esterne.

Verso la metá degli anni ’80 l’isola venne venduta a Gianni Agnelli, oggi sull’isola vengono organizzate escursioni di trekking.

L’antico paese di San Nicola Arcella appare in alto, nascosto dietro il costone di roccia, protetto dai nemici che arrivavano dal mare. Ci avvicianiamo all’antica “Torre Crowford” primo avamposto di difesa e costruita per l’avvistamento dei Saraceni, divenuta nel 1800 dimora estiva dello scrittore Francis Marion Crowford, colui che ha ideato il genere horror.

Prossima tappa di questa giornata il Cristo Redentore di Maratea. La strada che da Sapri porta a Maratea si snoda come un anaconda. Non sono alla guida, ma non riesco comunque a godermi lo spettacolo che mi dona il mare, a causa dei miei problemi di vertigine.

Nonostante ci sia sulla cima un parcheggio, decidiamo di lasciare la macchina lungo la strada, percorrendo un tratto del cammino di San Biagio, il santo che dà il nome al monte. La leggenda vuole che nel 732 d.C. una nave, che trasportava le reliquie di San Biagio fu costretta ad attraccare nell’isolotto di Santojanni a causa di una tempesta. Una volta passata la burrasca, non ci fu modo però di riprendere il largo e i devoti elaborarono il fatto come un segnale di dover custodire proprio in quel luogo i resti del santo.

Ci limitiamo alle ultime tappe ma è ugualmente suggestivo, con panorami incantevoli, sospesi nell’aria.

Nella fase finale della salita percorriamo i ruderi della città antica medioevale, distrutta, dopo un lungo assedio, dall’esercito napoleonico nel 1806. Il borgo si avvale del nome “castello”, per le fortificazioni, torri e bastioni da cui era caratterizzato, mentre la Maratea che conosciamo si avvale del nome di “borgo”.

Continuiamo l’ascesa e così d’improvviso, ad un’altitudine di 620 metri, appare imponente con il suo abbraccio la Statua del Cristo Redentore, di un bianco accecante,in netto contrasto con l’azzurro del cielo e del mare.

La storia della statua è legata al Conte Stefano Rivetti di Val Cervo, venuto da Biella nel 1953, e all’artista fiorentino Bruno Innocenti. Si tratta di un’opera di cemento armato rivestito da un impasto di cemento bianco e marmo di Carrara, alta 21 metri. Tali dimensioni la rendono, nel genere, la più grande d’Europa.

Il Cristo non rivolto verso il mare ma verso l’interno, in un interminabile abbraccio alla Lucania.

Calabria on the road: 1° parte

Abbiamo capito sin da subito che l’auto è il mezzo migliore e più comodo per visitare la Calabria. Per cui siamo partiti di buon ora alla scoperta di questa lingua di terra e dei suoi luoghi così paradisiaci, ancora poco valorizzati.

In questo articolo ripercorreremo le prime tappe del nostro on the road:

  • Castello di San Fili
  • Pentadattilo
  • Reggio Calabria
  • Scilla

Il percorso sino alla provincia di Reggio Calabria meritava una piccola sosta e così ci siamo fermati al Castello di San Fili. Il palazzo sorge su un promontorio, come una sentinella che da secoli osserva il mutare del tempo. Costruito tra il 1710 e il 1720 dal capitano Giuseppe Lamberti, si incastona perfettamente tra il cielo ed il mare e le ampie finestre del piano nobile offrono incantevoli vedute, trasformando ogni sguardo in un dipinto.

Dal Castello ci siamo diretti a Pentadattilo (che ha un racconto tutto suo-https://rondinelleinviaggiofamily.blog/2025/02/01/pentedattilo-alla-ricerca-della-felicita/) e siamo scivolati verso Reggio Calabria per “conoscere” i Bronzi di Riace, esposti al Museo Archeologico Nazionale. Ritrovati in mare nel 1972 da un sub romano, i Bronzi raffigurano due uomini nudi, giovani e forti, risalgono probabilmente al V secolo a.C.

Le due opere sono state a lungo al centro di una sorta di giallo archeologico: forse affondarono con una nave oppure furono gettate in mare, nel tentativo di alleggerire il carico e scongiurare un naufragio. Quest’ultima sembra l’ipotesi più attendibile, dato che nel luogo del ritrovamento non c’era traccia dei resti dell’imbarcazione e neppure di altri oggetti. I Bronzi sono diventati le statue-simbolo, l’espressione del concetto di bellezza sviluppatosi in Grecia, quella maschile, che si identificava con l’armonia di un corpo muscoloso, capace di esprimere forza, vigore e salute.

Per iniziare la nostra passeggiata a Reggio Calabria, dopo il museo, ci siamo recati al Lungomare Falcomatà, definito anche “il chilometro più bello d’Italia”. La bellezza di questo kilometro è leggendaria. La vista che qui si può ammirare sullo stretto di Messina, aulla Sicilia e sull’Etna lascia a bocca aperta. Lungo questo scorcio, che i reggini definiscono “le tre marine”, c’è la possibiltà di ammirare edifici, monumenti, piazzette, sculture e scavi archeologici, per conoscere un pò meglio la città. La passeggiata nella storia è resa più gradevole dal gelato di Cesare, una delle migliori gelaterie d’Italia, un famoso chioschetto verde situato qui da oltre 100 anni.

Ad impreziosire questo lembo di terra ci sono tre spledide sculture umanoidi dell’artista Rabarama, installate nel 2007, che danno le spalle alla villa, stile neo-liberty, come altri edifici ristrutturati/ricostruiti dopo il terremoto del 1908.

Non mancano gli affacci sul mare, fra questi la spettacolare Arena dello Stretto, monumento storico della città, fortemente ispirata a quella dell’antica tradizione magnogreca. All’estremità la statua bronzea della dea Athena, a difesa della città. Con un’ampia gradinata semicircolare, l’Arena si presta a eventi, manifestazioni teatrali, musicali e mostre fotografiche, come quella di Letizia Battaglia, che abbiamo avuto la fortuna di ammirare. L’artista ha immortalato la Sicilia come mai nessuno aveva osato.

Proseguiamo il nostro tour per Scilla, che fa parte della cosidetta Costa Viola, per via del colore che le acque assumono in determinate ore del giorno. Il fatto che questo borgo sia legato alla mitologia greca, più precisamente dall’Odissea di Omero, lo rende ancora più suggestivo. Scilla era una ninfa che aveva rifiutato l’amore di Glauco, il Dio marino, metà pesce e metà uomo. Questo, si rivolse alla maga Circe, innamorata di lui, per far cadere Scilla tra le sue braccia, ma Circe, invidiosa, la trasformò in un mostro marino con sei teste di cane. Da quel momento Scilla andò a nascondersi in una grotta dello stretto divorando e terrorizzando i malcapitati naviganti, inclusi i compagni di Ulisse.

Grotte, mostri marini e sirene sono le leggende per spiegare i mulinellli, gorghi e vortici nelle acque dello stretto di messina che rendevano difficile la navigazione delle fragili imbarcazioni di un tempo.

Tutta la costa è sovrastata dall’imponente Castello dei Ruffo, che sorge sulla rocca e che prende il nome del famoso mostro omerico. Il Castello fu dimora del Conte Paolo Ruffo, il quale dominò il feudo di Scilla dal 1523, difendendo il borgo dal Pirata Barbarossa. Da questa rocca si apre un suggestivo panorama sulle Isole Eolie e sulla costa siciliana.

Dalle spiagge di Scilla seguendo un piccolo percorso a piedi è possibile raggiungere Chianalea di Scilla, il pittoresco borgo di pescatori, completamente avulso dalla realtà che lo circonda. Le case di Chianalea sono costruite direttamente sugli scogli e sono separate da strette viuzze che chiamano verso il mare. Man mano che scendi l profumo del mare diviene intenso e gli scorci poetici.

La pesca rimane uno dei tratti caratteristici del borgo, nonché la sua attività principale, in particolare quella del pesce spada che continua a farsi con i “luntri”, le tipiche imbarcazioni a remi, o con le più moderne “passarelle”, barche a motore con l’antenna d’avvistamento.

In questo quartiere abbiamo avuto la fortuna di ascoltare le storie di pescatori, che abitano queste case quasi sospese sull’acqua, intenti a sistemare le loro reti. Scilla, insieme a Palmi e Bagnara erano famose per la pesca del pesce spada, che veniva tramandato di padre in figlio. Il pesce spada rappresentava anche un vanto della cucina locale. Ora però sono in pochi a proseguire questa tradizione. I ragazzi hanno fatto altre scelte e la normativa, la burocrazia ed i costi non aiutano i pochi che sono rimasti.

Nonostante queste considerazioni non del tutto rosee dell’economia, Chianalea è un gioiello che merita di essere visto almeno una volta della vita. Davanti alle case che si sposano con le acque puoi osservare, ascoltare, sognare un tempo perduto, che torna quotidianamente, portato dalle onde.

Vedi Napoli e poi muori!

Napoli è verace, chiassosa, allegra, aperta, piena zeppa di genti, contradittoria, ma con un patrimonio culturale pazzesco. Abbiamo adorato sin da subito questa città e appena possiamo torniamo ammaliati dalla sua atmosfera.

Dopo una breve passeggiata, partiamo alla scoperta dei Quartieri Spagnoli, la zona a più alta densità abitativa della città. Durante il periodo della dominazione spagnola (parliamo del 1500) le truppe militari si stabilirono sulla collina che oggi ospita i Quartieri. La posizione era ideale, in primis perché vicina al Palazzo Reale, e poi perché, grazie alla pendenza della collina, i soldati riuscivano a sedare le rivolte popolari facendo colare olio bollente sulle strade.

Saliamo per via Toledo, la via in cui passeggiavano i signori spagnoli, oggi rinomato luogo dello shopping, che attrae sia napoletani che i turisti. La strada riflette le diverse identità di Napoli, essendo storiamente un punto di incontro tra quartieri popolari e zone nobili. Infatti mentre i signori passeggiavano su Via Toledo, i militari nei Quartieri Spagnoli passavano il loro tempo libero tra prostitute e gioco d’azzardo.

Alla fine del 1800, con l’arrivo del colera, Napoli venne ricostruita e gli edifici storici vennero sostituiti da quelli nuovi, sempre più alti, che portarono il quartiere all’espansione, sino alla collina del Vomero, inglobando giardini e conventi.

Tutto il quartiere è un mercato continuo, un susseguirsi di viuzze dal fascino decadente in cui la luce filtra con parsimonia tra i palazzoni che sfoggiano con orgoglio i panni stesi sui balconi. Vi sono botteghe di frutta, verdura, di generi coloniali, di salami e di formaggi, tutto in strada, al sole, alle nuvole e alla pioggia.

In questo luogo ti guida il profumo del cibo. Difficile scegliere dove fermarsi. Entriamo in un alimentare. Prima di noi un ragazzo compra una scamorza, “ vai vai, domani me li dai, non ti preoccupa’”. Nicole trova quel comportamento alquanto strano. Come fa ad essere sicuro che tornerà a pagare quella scamorza? Beh, ci sono ancora paesi in cui la parola è ancora importante, le spiego.

Scendiamo sino al mercato della Pignasecca, che prende il nome da una leggenda, secondo cui in questa zona c’era un fitto bosco di pini abitato da gazze ladre. Un giorno una gazza rubò l’anello al vescovo di Napoli, che era venuto nel bosco per ricongiungersi di nascosto con la sua perpetua. Il vescovo, per vendetta, scomunicò tutte le gazze. Dopo pochi giorni la pineta seccò e le gazze volarono via, lasciando quel luogo divenuto ormai arido e quindi conosciuto come “la Pignasecca”.

Raggiungiamo Via Vetriera, dove si trova l’antica fabbrica di cioccolato, “Gay Odin”. E’ la maestra di Giada che ci consiglia di gustare la foresta nera, che dopo un centinaio di anni continua ad essere il pezzo forte di questa storica ciccolateria.

Il lungomare di Napoli è il luogo ideale per questa prelibatezza. Una passeggiata da togliere il fiato: il sole che si riflette sull’acqua, il Vesuvio sullo sfondo, il profilo dell‘isola di Capri in lontananza.

Con un biglietto da € 1,30 saliamo su una terrazza panoramica. Si tratta dell’ascensore Monte Elia. Per scoprire una nuova Napoli, quella che non ti raccontano nelle guide turistiche.

Al calar del sole la città si tinge di una luce color senape, mentre il cielo inizia a mutare, tingendosi di sfumature color albicocca.

Vedi Napoli e poi muori!. Un detto che tuttora si perde tra gli scorci particolari e meravigliosi di Napoli, che spiega le emozione travolgenti che questa città è in grado di innescare.

Non hai bisogno di nient’altro.

Pompei.

Complice uno spettacolo al teatro Verdi di Salerno, abbiamo deciso di tornare in Campania per due giorni.

Siamo arrivati di prima mattina a Pompei e abbiamo atteso che si formasse un gruppo di 10 persone per cominciare la nostra visita guidata. Impossibile visitare l’intero insediamento in poche ore, per cui si cerca di focalizzare l’attenzione su alcuni siti precisi.

Pompei è una delle destinazioni italiane più conosciute al mondo. Il suo Parco Archeologico, dal 1997 patrimonio Unesco, è una meta imprescindibile per chi vuole scoprire la maestosità e la ricchezza di una tipica città romana.

I primi insediamenti risalgono infatti all’età del Ferro. Da subito, Pompei s’impone come un importante polo commerciale del Mediterraneo, dotandosi in poco tempo di un sistema di fortificazioni, palazzi, templi e strutture pubbliche. L’epoca romana fu quella che consacrò Pompei come “residenza di villeggiatura” per i nobili patrizi.

Il 24 agosto del 79 d.C. Pompei venne completamente distrutta da un’eruzione lavica. La città fu completamente seppellita sotto uno strato di 3 metri di cenere e lapilli, una catastrofe di proporzioni gigantesche che colpì anche le aree circostanti come Ercolano.

Cercheremo di descrivere alcuni dei siti del parco visitati, in questa occasione:

1. Casa Ceii: particolari scene di caccia con animali selvatici sono dipinte sulla parete di fondo del giardino, oltre alla presenza di paesaggi egittizzanti con pigmei ed animali del Delta del Nilo.

Riproduzioni che suggeriscono il forte legame del proprietario della domus con il mondo egizio e con il culto di Iside particolarmente diffuso negli ultimi anni di vita di Pompei.

All’interno sono riproposti parte degli allestimenti originari della dimora, con la risistemazione del tavolo in marmo e della vera di pozzo nell’atrio, in cui sono visibili i calchi di un armadio e della porta di ingresso.

Grandi spazi verdi, un lussuoso quartiere termale privato e vivide decorazioni, ci attendevano anche nel complesso dei Praedia di Giulia Felice.

2. Casa del Menandro: più che una casa è una enorme villa, di quasi 1800 m². La cosa inusuale è che il corpo centrale è stato costruito a un livello superiore rispetto a quello del cortile con il forno e i sotterranei e a quello dell’ergastulum, il quartiere riservato ai servi.

In un corridoio sotto il piccolo atrio della casa, nel 1930, gli archeologi addetti agli scavi rinvennero un tesoro straordinariamente ricco, per l’epoca archeologica a cui i beni si riferiscono, per i materiali di pregio con cui furono eseguiti, cioè oro e argento e per le capacità artistiche dei romani particolarmente in quel periodo. Il tesoro, per un totale di 84 kg, tra vasellame, oltre gioielli e monete, è conservato presso il Museo Nazionale Archeologico di Napoli.

3. Il Foro: è senza dubbio nel cuore pulsante della città. Gli antichi abitanti si recavano qui per accedere agli edifici principali della città e per partecipare alle manifestazioni religiose.

4. Le lupanare. Pompei è conosciuta anche come la città del vizio. Infatti, i pompeiani non presentavano problemi a ostentare le loro passioni e spesso le case erano dotate di stanze segrete dove le schiave esaudivano i desideri dei ricchi romani. L’edificio più conosciuto era il Lupanare: un edificio di due piani, ciascuno con 5 celle, ognuna fornita di un giaciglio di pietra su cui venivano sistemati dei materassi. La cosa curiosa è che il percorso per la struttura era indicato nelle vie della città da segnali a forma di fallo.

5. Villa dei Misteri: collocata in un’area più esterna del sito, si trova una delle ville patrizie più famose del posto, probabilmente la dimora di Livia, moglie dell’Imperatore Augusto.

Nella stanza del Triclinio, figure a grandezza naturale sono impegnate nei preparativi di un rito, ancora poco chiaro. Alcuni sostengono si tratti di un rito dionisiaco, altri semplicemente di un matrimonio. La Villa include anche una struttura termale e stanze suddivise per ambienti di servizio e residenziali.

6. Calchi: una delle testimonianze più eclatanti di tutto il sito archeologico, sono i 13 corpi rinvenuti ( per la precisione calchi in gesso) che cercavano di salvarsi dalla terribile eruzione del Vesuvio. Una testimonia drammata degli ultimi attimi di vita degli abitanti di Pompei.

I corpi sono rimasti sepolti in 9 metri di cenere per oltre 1900 anni! Nel 1863 il direttore degli Scavi, venne avvertito dagli operai che avevano incontrato una cavità, in fondo alla quale si scorgevano delle ossa. Ordinò che si arrestasse il lavoro, fece stemperare del gesso, che venne versato in quella cavità. Grazie alla tecnica utilizzata è stato possibile ricreare quel corpo all’interno della cavità e vedere le espressioni angosciate e addolorate di uomini, donne e bambini. Con questi calchi Pompei rivive la tragedia, un fermo immagine degli ultimi momenti di vita di un’intera popolazione.

Pompei non smette mai di sorprendere. Ogni anno, nuove scoperte aggiungono un tassello al mosaico della conoscenza ed è sempre affascinante ritornare. Dopo tutto si tratta della nostra storia 🙂

50 sfumature di verde: laghi di Monticchio.

Immagina di passeggiare nella natura e che questa, silente e placida, si rispecchi nel lago. Immagina che il lago sia la bocca di un antico vulcano spento. Immagina poi pioppi, cerri, faggi e roveri alti, dai tronchi enormi sotto i quali ti senti piccolissimo. Immagina una abbazia eretta su una grotta e foglie scricchiolanti sotto le scarpe.

Non serve immaginare se sei ai laghi di Monticchio.

Così una domenica di ottobre decidiamo di raggiungere L’Abbazia di San Michele, situata sul Monte Vulture.

L’antichissimo culto dell’Arcangelo Michele fu importato in Italia meridionale dai Longobardi che, spintisi fin qui, fondarono i principati di Benevento e di Salerno erigendo in questo territorio numerose chiese consacrate alla devozione del Santo. La grotta naturale, a picco sul lago, fu consacrata a luogo di culto dato che, secondo la tradizione, qui l’Arcangelo Michele apparve più volte alle popolazioni. Anni dopo, nella grotta dell’Arcangelo iniziarono a riunirsi prima i Monaci Basiliani, in fuga dalla dottrina della Chiesa Bizantina, poi i Benedettini, per frenare l’espansione della chiesa ortodossa. Questi ultimi fecero edificare l’abbazia, abbandonandola poi nel 1456. Ci fu un tempo, dunque, in cui a Monticchio convivevano, due ordini di fede, molto diversi per riti e principi dogmatici. Solo dopo l’affermazione politica e militare dei Normanni, i Basiliani abbandonarono gradualmente il Vulture e e l’Abbazia passò ai Cappuccini, che fondarono una biblioteca e un lanificio.

Oggi, il complesso abbaziale si articola su più piani, con la chiesa settecentesca e l’antichissima cappella di S. Michele, appoggiata al suolo roccioso della primitiva grotta, in cui vi sono numerosi affreschi di epoca bizantina e medievale. All’Abbazia si accede percorrendo un sentiero petroso immerso nella foresta di faggi e lecci e dalle sue finestre si gode di un bellissimo panorama sui laghi sottostanti.

Intorno ai laghi vi sono numerosi sentieri. Noi avendo poco tempo a disposizione abbiamo percorso quello attiguo all’Abbazia, che in 20 minuti porta al belvedere.

La vista che si gode a questa altezza non è priva di inconvenienti per chi soffre di vertigini, ma è ad ogni modo incantevole. Così abbiamo steso una tovaglia e ci siamo rilassati in un dolce picnic.

Il sentiero non è molto tracciato, infatti c’è stato un attimo in cui abbiamo messo in dubbio la possibilità di avanzare, per alcuni tronchi caduti di recente che ostacolavano la salita. Il terreno inoltre non è molto compatto, per cui nella discesa questo spesso franava un pò, sotto i nostri passi. Ma niente di preoccupante. Arrivati nuovamente all’Abbazia abbiamo intrapreso il percorso naturalistico che porta giù al lago piccolo.

I Laghi di Monticchio sono parte di una Riserva Regionale della Basilicata, una zona naturalistica molto piacevole da visitare. Si tratta di due laghi, sorti occupando l’area di due antichi crateri di quello che un tempo era un vulcano, circondati da una natura verdeggiante ed incontaminata.

Per godere dell’oasi di pace abbiamo noleggiato un pedalò dalla banchina del Lago Piccolo e siamo rimasti sospesi in quelle acque dalle 50 sfumature di verde.

Il tempo sembra fermarsi ❤️.

L’Abbazia si vede in tutto il suo splendore, aggrappata alla parete della montagna, bianca, imponente, elegante, incastonata nella parete del monte, che sovrasta i laghi, e in questi si riflette giocando con le nuvole.

Una bellissima passeggiata autunnale che consiglio a tutti.

Prima del rientro non poteva mancare una visita al Castello di Melfi, che al suo interno ospita l’interessantissimo Museo Archeologico Nazionale.

La Basilicata fu una terra che Federico II apprezzò molto e in cui soggiornava spesso per le sue amate battute di caccia. Il Castello di Melfi, sebbene sia stato costruito dai suoi predecessori normanni, divenne fulcro dell’attività amministrativa del suo regno, per poi diventare dei Doria fino al 1950 e poi di proprietà dello stato italiano.
La struttura ha una unica entrata agibile con un ponte che dà sul vasto fossato. Una volta ammirata la maestosità del castello si può accedere al museo, con un ticket di 2,50 euro. Le sale del museo custodiscono numerosi reperti archeologici ritrovati nella zona del Vulture, in particolare corredi funerari di guerrieri e nobili. Lasciano davvero a bocca aperta, sia per lo sfarzo che regnava all’epoca tra le genti nobili, sia per l’importanza che si dava alla fase della sepoltura. Insomma una full immersion culturale nella splendida cornice del Castello di Melfi che vi emozionerà sicuramente.
La Basilicata è anche questo