Chi mi conosce lo sa, non amo particolarmente i parchi divertimento, complice anche i miei problemi di vertigine, comparsi in età adulta. Con il primo figlio ho evitato qualsiasi parco esistente ed intanto lui non faceva richieste, accontentandosi delle giostre durante la festa di paese.
Poi non so spiegarvi bene cosa sia successo, probabilmente mi sono fatta influenzare dagli articoli che spopolano su internet, dai racconti di amici e dalla insistenza delle mie figlie, fatto sta che ho organizzato una intera giornata a Disneyland Paris.
Più volte mi sono sentita dire che 24 ore a Disneyland Paris non sono abbastanza. Ora che ci sono stata mi è chiaro il perché. In un giorno solo, ho avuto la sensazione di non aver fatto nulla, seppur abbiamo cercato di sfruttare al massimo l’intera giornata, dall’apertura all’ultimo minuto prima della chiusura, in compagnia del nostro un nuovo amico, Stitch.
Per fortuna siamo partite informate su questo mondo a sé. Avevamo scaricato un’app, fatto una scrematura delle attrazioni da vedere e creato, sempre con l’applicazione, il nostro percorso. Potevamo conoscere, in tempo reale, la fila esistente per ciascuna attrazione ed effettuare cambi di rotta sul momento.
Nonostante questo ci sono stati 20/30 minuti di fila per alcune attrazioni che non è tantissimo dato che eravamo in marzo.
Considerate che poi ci sono le fileanche per mangiare, file per andare in bagno e file per fare le foto con i personaggi Disney. Noi, in verità, avevamo preparato le nostre buonissime baguettes, al mattino, su Rue Montorgueil e con i croissant della pasticceria Storner eravamo prontissime.
Ma attenzione, qualcosa è piaciuto anche a me: le attrazioni di Disneyland Paris sono davvero ben fatte, c’è una grande cura del particolare e le scenografia sono davvero suggestive. Gli abiti ed il trucco dei personaggi sono meravigliosi. Ragion per cui salverei: 1. La parata. 2. Il Musical del Re Leone 3. Lo spettacolo finale di luci.
Dire che a che gli adulti possono vivere un sogno e tornare bambini per un giorno è una visione romantica e idealista che non coincide con la realtà. Almeno la mia.
Ammetto di non essere riuscita a lasciarmi andare alla magia di Disneyland Paris. Comunque voglio tranquillizzarvi, non ho coinvolto le bambine nel mio giudizio, per loro é stata pura magia.
Per me è stato bello vedere la magia nei loro occhi ❤️.
Alle mie bimbe: sappiate che il mio è stato un grande atto di generosità.
Ci sono stata decine di volte, eppure la sua bellezza non stanca mai. Matera è meraviglia pura, una bellezza unica al mondo.
Per capire meglio la storia di Matera ed emozionarvi vi consiglio di farvi accompagnare da una persona del posto. La nostra guida è stata Giusi, una donna che ama profondamente la sua terra.
La storia ci narra che i Sassi, fino agli anni ’50, sono stati il simbolo del degrado sociale, un cratere in cui uomini e donne vivevano all’interno di grotte insieme agli animalI, in una situazione di totale assenza di salubrità. Carlo Levi fu tra i primi ad accendere i riflettori sulla città e a scuotere le coscienze.
Con la sua celebre opera, “Cristo si è fermato ad Eboli”, denunciò le condizioni in cui viveva la popolazione materana e diede inizio ad un inaspettato e incredibile processo di rivalutazione.
Nel maggio 1952 venne promulgata la Legge per lo sfollamento dei Sassi, che prevedeva la costruzione di nuovi quartieri popolari, distanti dal centro storico, dove gli abitanti furono costretti a trasferirsi. Nel 1993 iniziò con vigore il riscatto sociale ed architettonico della città, riscattando l’immagine c ad essere una delle mete turistiche più apprezzate nel Mondo.
I Sassi di Matera sono un insediamento rupestre abitato sin dal paleolitico, che rappresenta un esempio emblematico di abitazione concepita in perfetta armonia con il paesaggio. Originariamente gli uomini utilizzarono le grotte naturali e successivamente impararono a trasformarle in base alle proprie esigenze, sino ad arrivare a creare dei veri e propri vicinati.
La piazza su cui si affacciavano queste case, scavate nella collina, su più livelli, era il luogo della condisione della cura dei bambini e degli anziani, il luogo in cui si mettevano in comune le conoscenze e le abilità.La casa aveva una camera multifunzione, adibita allo stesso tempo a luogo di soggiorno, cucina, camera da letto mentre sul fondo spesso vi era spazio per il magazzino e gli animali. Il livello di igiene era davvero scarso e le conduttore di scarico erano a cielo aperto.
Nel nostro tour lungo il sasso Barisano, ci siamo fermati alla Chiesa rupestre di sant’Antonio Abate, dove siamo stati accolti da Eustachio, un signore ottantenne, con il cuore e la mente carichi di un passato che non vuole dimenticare. Ha suonato per noi la Cupa Cupa, strumento musicale che suona da più di 60 anni, intonando una canzone legata alla tradizionale uccisone del maiale. Seppur per pochi attimi queste canzoni aiutavano a nascondere i problemi legati alle dure condizioni di vita.
Ed era festa per tutti.
A pochi km da Matera siamo riusciti ad ammirare un gioello, nascosto in una grotta: La Cripta del Peccato Originale.
Il nome è dovuto al ciclo di affreschi dipinti tra l’VIII e il IX secolo che culminano con episodi della creazione. Incredibilmente vivida è l’immagine di Eva generata dalla costola di Adamo.
Gli affreschi sono caratterizzati da un prato di fiori rossi eleganti e raffinati, i cisti, fiori tipici dell’altopiano murgiano che hanno dato al luogo un secondo nome: la Cripta del Pittore dei Fiori di Matera.
Non ci siamo lasciati scappare l’occasione di visitare Craco, il paese fantasma della Basilicata, così suggestivo da togliere il fiato. Silenzio, strade vuote, nuvole che si muovono all’orizzonte e qualche asinello solitario fanno da cornice alle case aggrappate alla collina.
Craco è stata costruita in un territorio fragile, formato da rocce argillose dove l’acqua ha scavato nel tempo grandi fessure. Nel 1963 una frana e pochi anni dopo, un terremoto, portarono gli abitanti ad abbandonare il paese.
Nel 2011 il comune di Craco ha istituito un piano di recupero del borgo vecchio. Infatti accompagnati da una guida è possibile visitare, in sicurezza, la città che, con i suoi resti, ha ancora tanto da raccontare.
Craco si trova a ridosso di un’area selvaggia caratterizzata da alte montagne di argilla, alcune sono più grandi altre più piccole, circondate da una scarsa vegetazione di arbusti e cespugli. È un posto quasi surreale, silenzioso, avvolto da un’atmosfera di immensa tranquillità: sono i Calanchi.
La nostra giornata è terminata con una brevissima sosta a Pisticci e il suo belvedere, in cui si stagliano, in netto contrasto con le case bianche a valle, gli archi del rione Terravecchia.
Le case a valle, tutte bianche con i tetti rossi, sono esempio unico nel suo genere di architettura spontanea contadina. In una notte dell’inverno del 1688, una incredibile nevicata provocò una frana che fece sprofondare due interi quartieri di Pisticci.
Al rifiuto degli abitanti di abbandonare i luoghi del disastro si decise che sul terreno della frana si sarebbero ricostruite le nuove abitazioni.
Nel popolo lucano è radicato un forte legame con la sua terra. Legame che abbiamo trovato a Matera con il suo riscatto collettivo, a Craco e Pisticci nella scelta di non abbandonare la terra, seppur fragile.
Questo legame trova la sua espressione anche nella cucina. Non a caso i piatti più rappresentativi della Basilicata nascono da ricette figlie della cultura contadina.
Ogni lembo di questa terra ha un passato da raccontare. Un passato a volte difficile che raccoglie in sé la forza del riscatto, della consapevolezza, dell’amore.
Nel nostro primo tour del 2023 ci siamo ritrovati a percorrere la strada panoramica più frastagliata al mondo, ricavata alla fine del XIX secolo nella roccia viva, piena di tornanti, curve strette e virgole di strada, una vera insidia per chi come me soffre di vertigini, perchè fa salire un’ansia indicibile :’).
Prima tappa una piccola cittadina, un vero scrigno che nonostante le sue dimensioni ridotte, riesce a catturare l’attenzione, si tratta di Maiori. Impossibile non innamorarsi.
Maiori si divide tra una zona bassa, con la spiaggia più lunga della costiera (di origine vulcanica) ed una parte più alta, situata su una rocca in cui si trova uno dei simboli della città, la Collegiata di Santa Maria al Mare, nataa difesa della città dall’assalto dei Longobardi. Di qui abbiamo intrapreso il Sentiero dei Limoni, un’antica strada che congiunge Maiori e Minori. Una strada che sa di passato, immersa in uno scenario intriso di poesia, con portoncine che lasciano intravedere interni di intimità familiare. Una passeggiata che riserva davvero scorci particolari.
Un altro luogo importante di Maiori è la Torre Normanna: un poderoso bastione difensivo che proteggeva la cittadina dagli attacchi dal mare soprattutto dei pirati saraceni, attualmente trasformata in un ristorante. Attraverso una scalinata è possibile raggiungere la caletta sottostante. Vi consiglio di scendere al tramonto 😊.
Il giorno dopo ci siamo diretti a Ravello, un piccolo ed elegante borgo fatto di vicoli stretti, botteghe di artigianato e ceramiche, tanti scalini e case piene di fiori e decori. Un labirinto che regala affacci stupendi sulle colline e sul golfo.
Dalla Piazza principale si accede a Villa Rufolo, la dimora di una potentissima famiglia della Ravello medievale, che costruì una dimora all’altezza del proprio rango sociale e politico. La Villa, mix di architettura e decorazioni arabe, bizantine e locali, cadde poi in rovina e venne acquistata da un britannico, il lord scozzese Sir Francis Nevile Reid, che ristrutturò la villa e trasformò le terrazze nel parco che oggi ammiriamo.
Il giardino regala un meraviglioso belvedere che si affaccia sul Golfo, di una bellezza stupefacente, immagine simbolo della Costiera stessa.
L’altra tappa immancabile a Ravello è villa Cimbrone, meno centrale della prima, che si raggiunge percorrendo gli stretti vicoli, tra tanti gattini che girano liberi per queste viuzze. In realtà si tratta di un hotel, ma il grande parco è accessibile a tutti a pagamento. Lo abbiamo trovato stupendo. Il nome villa Cimbrone deriva dal Cimbronium, che era la denominazione del promontorio roccioso su cui sorgevano i resti di una villa romana, trasformata poi in casale. Villa Cimbrone era infatti un ampio podere, da cui si ricavava legname per uso navale. I terreni erano molto ambiti per la posizione e per il fatto di poter contare su ampie zone pianeggianti e coltivabili, rarità in un territorio molto scosceso.
Nel tempo la villa finì in uno stato di abbandono, ma fu riscoperta alla fine dell’’800 da un colto viaggiatore inglese, Ernest William Beckett (Lord Grimthorpe), giunto a Ravello su consiglio di amici per curare la depressione causata dalla perdita della moglie. Ernest si innamorò del luogo e lo acquistò per farlo diventare un gioiello.
Subito dopo l’entrata, il Viale dell’Immenso conduce alla Terrazza dell’Infinito, dove lo sguardo si perde davvero nell’infinito del mare e del cielo. Inutile dire che anche da qui il panorama è stupendo.
Nei giardini di Villa Cimbrone c’è molto altro da vedere: bellissimo è il chiostro in stile normanno-arabo-siculo e la Tea Room, un giardinetto all’italiana.
Quando avevo accennato all’idea della costiera come viaggio, tutti mi avevano sollevato il problema dei parcheggi, ma il 2 gennaio quale problema avremmo mai potuto incontrare? Ebbene sì! Ad Amalfi si può impazzire per un posto auto anche a Gennaio.
La visita ad Amalfi parte dal Duomo o Chiesa di San Andrea, il gioiello della città. Fu costruita nel 987 in stile romanico con tre navate e una stupenda facciata in stile neo-moresco con influenze gotiche.
Subito dopo abbiamo iniziato a gironzolare per le viuzze, perché il bello di un posto come questo è proprio questo: attorno alla strada principale, si snoda un intreccio di stradine e piazzette, che rendono Amalfi molto suggestiva.
Mangiare il sorbetto al limone ad Amalfi è una tappa obbligatoria.
Nel nostro viaggio di ritorno abbiamo fatto tappa a Cetara e Vietri sul Mare. La spiaggia di Marina di Cetara è certamente la più conosciuta: le caratteristiche casette che la circondano, come in un abbraccio, e il porto dei pescatori, fanno da cornice ad una delle immagini più iconiche del paese. Una sorta di cartolina d’altri tempi. La città nasce nell’Alto Medioevo e diviene nel tempo un importante punto di attracco per i commerci.
Nonostante gli assalti e i saccheggi, la città seppe resistere, costruendo la Torre Vicereale e conservando nel tempo tradizioni marinare che ancora oggi ne sono la forza portante, sia in campo economico che turistico.
La Torre Vicereale di Cetara si affaccia sulla marina e si trova al termine del lungomare, si staglia tra il blu del mare e l’azzurro del cielo, è uno dei maggiori simboli di Cetara, un tempo una delle 400 torri d’avvistamento e di difesa.
A Cetara esiste, inoltre, un museo a cielo aperto, sono ben 34 le panchine d’autore, realizzate dai maestri ceramisti locali. Raffigurano scene di vita popolare, dalla pesca delle alici alla coltivazione dei limoni, con un tocco di moderno. Sono sparse per tutto il paese ed è impossibile non notarle!
A Vietri sul Mare abbiamo percorso una lunghissima gradinata, per salire al paese. Per fortuna le mie bimbe sono avvezze a questi percorsi un po’ tortuosi.
Quello che rende unica Vietri è la ceramica. Ceramiche ovunque: dalle fioriere dei balconi, alle facciate esterne dei negozi, dai marciapiedi alle fontane pubbliche.
Un tripudio di coloriche regala alla città un aspetto allegro e vivace.
Girovagando tra le viuzze, in via Scialli, abbiamo ritrovato le tracce di una Ruota dei Trovatelli, datata XIX secolo. Si tratta di uno sportello girevole dove potevano essere abbandonati i neonati in modo anonimo e al tempo stesso sicuro per il nascituro.
Così dopo tanto tempo ci siamo ritrovati in un viaggio tutti insieme 🙂
Nel nostro sesto giorno di viaggio, on the road per la Sicilia, siamo giunti a Palermo, con un bagaglio di colori, odori ma anche di chilometri percorsi. Il tempo era limitato ma siamo riusciti ad ammirare alcuni tesori del capoluogo, con qualche bella sorpresa prima di ritornare in Puglia.
Prima tappa il Palazzo Reale, la più antica residenza reale d’Europa che poggia su un’antica costruzione punica, fortificata dai greci e dagli arabi, divenuta nel tempo importante centro della cultura e dell’arte.
La visita alla Cappella Palatina è una delle cose imprescindibili da fare. Trattasi di una basilica in stile normanno-bizantino, voluta da Ruggero II d’Altavilla, il primo re normanno di Sicilia, e consacrata nel 1140, completamente ricoperta da mosaici. E’ davvero splendida e per osservare ogni dettaglio bisognerebbe stare ore intere con il naso all’insu’.
Ruggero II aveva una visione molto aperta della tolleranza religiosa e perciò chiamò alla realizzazione della cappella arabi e normanni. Questi ultimi a quei tempi erano analfabeti e perciò i mosaici erano un modo per far conoscere i testi sacri.
Alla destra dell’ingresso, il candelabro monolitico alto oltre quattro metri, un capolavoro scultoreo in marmo bianco diviso in cinque ordini che poggia su quattro leoni, simbolo dei normanni, che azzannano uomini e animali. Al centro del candelabro è raffigurato Cristo con la barba, seduto su un cuscino, che tiene in mano un libro. Ai suoi piedi si vede la figura di un uomo in abiti ecclesiastici, probabilmente lo stesso Ruggero II.
Al secondo livello, si trovano gli appartamenti reali molto belli sia per la presenza dei decori sia per gli elementi di arredo.
Con nostra grande emozione, era allestita all’intero del palazzo la mostra di Steve MC Curry: “For Freedom”: una raccolta di volti di donne afgane che hanno perso il diritto allo studio e alla vita sociale, un nuovo appello al mondo che si è dimenticato troppo in fretta del passato.
Le Chiese barocche sono i fiori all’occhiello dei paesaggi cittadini siciliani. Molte di queste costruzioni presentano una variante autonoma del genere Barocco, in cui è preponderante l’uso dei colori, dei marmi e delle decorazioni.
Noi abbiamo scelto, nel nostro tempo esiguo, di visitare la chiesa del Gesù di Palermo, meglio conosciuta come Casa Professa, una delle più imponenti e spettacolari chiese barocche di tutta la Sicilia. Un tripudio di marmi, stucchi e decorazioni, che rivestono ogni centimetro quadrato della superficie interna.
La chiesa è la manifestazione della presenza e del lavoro dei gesuiti. Costoro si impegnarono nell’istruzione, istituendo collegi e scuole ed intraprendendo missioni per arrestare l’ondata di protestantesimo. L’interno è ricco di colori e iconografie che celebrano la gloria di Gesù e della Madonna. Sono raffigurati elementi astratti, ma anche animali, umani e fiori, realizzati in marmo mischio e tramischio, in un’esplosione di colori e grandezza. Del resto, lo scopo primo del Barocco è quello di diffondere la dottrina cattolica attraverso lo sfarzo e la grandiosità e spettacolarità della propria arte. Impossibile rimanere indifferenti di fronte alla spettacolarità di quest’opera.
Non si può andar via da Palermo senza avere visto il mercato di Ballarò. Qui si entra subito in un altro mondo, fatto di voci, di urla, di cui spesso non capisci il senso, avverti solo i suoni che si sovrappongono, ti circondano e ti confondono. E poi vedi i colori, così accesi, delle innumerevoli varietà di frutta e verdure fresche che attirano lo sguardo. E poi senti gli odori, quelli più forti, del pesce appena pescato, quelli più inebrianti delle tante spezie e piante aromatiche, quelli più tenui e freschi della frutta e delle verdure. Non puoi fare a meno di assaggiare un’arancia, una spremuta di melagrane, di comprare un prodotto locale da portare via.
Sui banchi davanti alla gente che passa le cose più inimmaginabili: piattini di sarde, di beccafico, polpi interi scottati in acqua e gettati su una piastra, spiedini, un tripudio di colori, di sapori, di cibi.
Tra i vicoli del quartiere Ballarò è ancora possibile imbattersi nell’antica bottega di Antimo, calzolaio e nel coloratissimo atelier del cuoio di Massimo e Gino, di cui ho parlato nell’articolo dedicato alle botteghe siciliane. https://wordpress.com/post/rondinelleinviaggio.family.blog/423
Palermo appare come una città eclettica e versatile e trai vicoli, sia di giorno che la sera, è sempre una gran festa.
All’ora del crepuscolo vicoli e piazze si trasformano in suggestive location di food&drink. Anche in inverno ci si può sedere fuori nei dehors contemplando la scenografia che offre la città, fastosi palazzi nobiliari, giardini lussureggianti e scorci pittoreschi che trasudano storia.
La stanchezza a fine tour, dopo quasi 800 km percorsi, è visibile sui nostri volti, ma speriamo di ritornare presto in Sicilia, che è entrata a pieno titolo nel nostro cuore.
Uno dei luoghi che più volevamo vedere durante il nostro viaggio in Sicilia, on the road,era la splendida Valle dei Templi. Un luogo ricco di storia che abbiamo avuto la fortuna di visitare con pochi turisti, respirando completamente l’essenza, il silenzio e la magia.
Si narra che furono gli abitanti di Gela, nell’intento di espandere il proprio dominio verso occidente, a porre le prime pietre sul suolo di Agrigento. Così i gelesi, per lo più coloni provenienti dalle isole di Creta e Rodi, scelsero di costruire la città di Akragas tra due fiumi, in un territorio che confina col mare, protetto da mura naturali di roccia. Lo sviluppo della polis fu repentino e ben presto diventò quella che Pindaro definì “la più bella città dei mortali”.
Tutto è rivolto ad Oriente in questa valle, verso il Monte Olimpo. Il Tempio di Giunone non è il tempio meglio conservato del sito archeologico tuttavia la sua maestosità è ammirabile già dai primi gradini. Le colonne doriche, che un tempo celavano i sacrifici umani in onore della divinità, sono davvero tra le più affascinanti della Valle dei Templi
Costruito intorno al 450 a.C. è stato intitolato a Giunone, poiché al suo interno era custodito un quadro che si presume raffigurasse la Dea protettrice delle donne e della fertilità femminile, moglie e sorella di Zeus. Il Tempio della Concordia è il simbolo di questo luogo magnifico ed il meglio conservato, non solo di tutto il sito archeologico della Valle dei Templi ma, fra tutti i templi dorici tuttora esistenti, assieme al Partenone di Atene.
Dietro al suo nome è celato un mistero: erroneamente è stato intitolato alla Concordia, in realtà non si sa a quale divinità fosse dedicato.
Ha resistito a terremoti, battaglie, dominazioni e, in tempi più recenti, anche a bombardamenti. Di certo, si sa che il tempio si è salvato da un triste destino di distruzione solo grazie alla sua conversione in chiesa cristiana, a metà del 6° secolo d.C.
Di fronte a lui giace la scultura di Icaro Caduto, realizzata dallo scultore polacco Igor Mitoraj. La statua rappresenta la caduta di Icaro che, non ascoltando le raccomandazioni del padre Dedalo, volò troppo vicino al Sole, bruciandosi così le sue ali di cera e precipitando nel Mediterraneo.
In fondo al percorso principale c’è il Giardino della Kolymbethra, una piscina utilizzata in età romana per giochi acquatici e succesivamente trasformata in una ricca area coltivabile.
Un itinerario forse meno monumentale ma altrettanto interessante e persino emozionante sono state le necropoli paleocristiane, di età tardo antica e alto-medievale, che comprendono un’ampia area cimiteriale articolata in diversi settori: i loculi ricavati nel muro di fortificazione di età greca, il vasto cimitero all’aperto con tombe scavate nella roccia e una grande catacomba comunitaria.
Le grotte funerarie riutilizzano in alcuni casi le cisterne di epoca greca che conservavano l’acqua e i cereali. Alcuni spazi erano impiegati per il rituale funerario collettivo del pasto funebre (refrigerium) consumato dai parenti in occasione della deposizione o della commemorazione dei defunti.
La Catacomba Fragapane
Agrigento è anche ben rappresentata dalla Scala dei Turchi, una meravigliosa scalinata di marna calcarea bianca che si immerge nel mare blu cristallino di Sicilia. È forse la più conosciuta tra tutte le spiagge della provincia di Agrigento ed è uno dei luoghi più belli della Sicilia, per la sua imponente struttura che ricorda appunto una scalinata che sembra disegnare un paesaggio lunare.
Nel corso dei millenni, la Scala dei Turchi si è formata dall’accumulo di sedimenti minerali trasportati dal mare. L’acqua e il vento hanno poi modellato i suoi rilievi, dando origine a queste sorprendenti scale naturali.
La Scala dei Turchi prende il nome dai pirati Saraceni, impropriamente chiamati Turchi dalle popolazioni locali, che nel ‘500 usavano approdare sulla particolare formazione rocciosa per saccheggiare i villaggi della costa come l’attuale Realmonte.
La parete fatta a gradoni, da cui appunto il nome “scala”, rendeva facile l’approdo dal mare per le azioni piratesche, in un punto riparato dai venti e probabilmente anche poco controllato.
Abbiamo amato sin da subito il nostro viaggio, sin dai primi appunti lasciati sparsi su fogli bianchi e che pian piano prendevano forma. Il fascino di questa terra è un misto di odori che sanno di mare, di terra, di buon cibo e di vino che il vento porta con se avvolgendoti.
Avrete di certo capito che il salento è la mia meta preferita in questo periodo 🙂 Oggi vi porto nell’antico borgo di Nardò, un luogo incantevole.
L’origine della città è molto antica e l’etimologia del nome deriva dalla parola illirica nar, che significa “acqua”.
In effetti, una delle tante leggende legate alla sua fondazione è che la città sia emersa da un colpo di zoccolo sul terreno di un toro, proprio nel punto in cui aveva trovato l’acqua.
La Fontana che rappresenta questa leggenda si trova in Piazza Salandra, forse una delle piazze barocche più belle e allo stesso tempo più sorprendenti del Sud Italia.
La Piazza è un vero e proprio tripudio di arte che ospita diversi edifici barocchi. Al centro domina l’imponente Guglia dell’Immacolata, costruita in carparo (pietra locale) e alta 19 metri, suddivisa in livelli e ognuno di questi è ricco di festoni, decorazioni floreali e statue, per culminare con la statua della Vergine posta in cima. Un capolavoro! La Piazza è il cuore pulsante della città ed è resa ancora più importante dalla presenza dei numerosi monumenti che la circondano, di rilevanza storica ed architettonica.
Poco distante si trova la Chiesa di San Domenico, con la sua facciata barocca divisa in due ordini: quello inferiore che rappresenta il mondo pagano, mortale ed effimero e quello superiore che rappresenta la Fede, la contemplazione e dell’eternità.
Prendendo via Duomo si giunge alla Cattedrale di Santa Maria Assunta, fondata nel VII secolo sulle basi di un’antica chiesa basiliana. La facciata è stata resa molto semplice, mentre l’interno al contrario è sorprendente: un antico crocifisso nero in legno di cedro che risale al XIII secolo, preziose tele attribuite ad artisti meridionali e una serie di affreschi sotto l’abside, davvero meravigliosi!
Si racconta che i saraceni, nel 1255, devastarono la cattedrale di Nardò, tentando di bruciare la statua del Crocifisso, ma mentre la statua veniva portata fuori dalla Cattedrale urtò contro il portale. si ruppe un dito della mano sinistra da cui uscì un fiotto di sangue. I Saraceni spaventati da quel segno divino lasciarono la città.
Il centro storico di Nardò è ricco di viuzze con eleganti palazzi barocchi, corti, scorci affascinanti, piazzette, portali in pietra leccese intagliati e chiese. Un’altra caratteristica peculiare architettonica sono i numerosi archi sparsi per la città.
Nardò è sempre stato un rifugio ospitale e sicuro per vari ordini monastici e persone di varie religioni e le suore Clarisse che cercarono rifugio all’interno delle mura della città, fondarono il monastero nel 1265. La città ospitò più di 100 mila sopravvissuti ai campi di concentramento.
La comunità di Nardò li ha accolti calorosamente e li ha assistiti nonostante le loro difficili condizioni, indeboliti e scoraggiati da anni di guerra.
Dopo anni di prigionia, ai rifugiati ebrei fu data la possibilità di praticare liberamente la propria religione e le proprie tradizioni nella Sinagoga allestita a Santa Maria al Bagno, la località balneare di Nardò
Proseguendo la passeggiata incontriamo il Castello Acquaviva. Le prime notizie sul castello risalgono alla seconda metà del XV secolo, quando la sua edificazione segnò il passaggio dalla dominazione angioina a quella aragonese, che in città coincise con l’affermazione della famiglia Acquaviva. Probabilmente l’edificio fu concepito come ampliamento di una costruzione precedente, e si caratterizzò con un impianto quadrangolare cinto da mura e circondato da un profondo fossato. Il maniero era completato agli spigoli da quattro massicci torrioni a mandorla sporgenti. Il Castello perse parte della sua consistenza quando fu oggetto di un decisivo rimaneggiamento che lo portò alla trasformazione in residenza civile della famiglia Personè tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo.
Il Castello fa parte di un progetto di valorizzazione del territorio: “Eclettico” è il nome del progetto. Il concetto è pensato per esprimere i molti volti che ha assunto il castello dal Medioevo all’età contemporanea. Il visitatore, subito stupito dalla facciata eclettica, verrà coinvolto dalle diverse realtà che fanno dell’antico maniero un puzzle, che rispecchia il territorio in tutte le sue “eclettiche” sfaccettature.
All’interno del “Torrione dell’Innamorato”, al piano terra, è ospitato il Museo della Civiltà Contadina e delle Tradizioni Popolari, in cui sono esposti strumenti, arredi, attrezzi da lavoro e fotografie. Una ricostruzione parziale di una tipica abitazione della prima metà del Novecento, una serie di plastici che riproducono monumenti e chiese antichi della città. Mentre al piano terra, troviamo la Mostra Permanente di unpoeta e studioso salentino. Le guide tutte molto disponibili e preparate. Il biglietto per vedere il castello, il Museo e la mostra permanente solo € 7,50.
Situato accanto al Castello, c’è un orto botanico ottocentesco tra più antichi del Salento. Qui si possono trovare piante rare e collezione di specie floristiche autoctone.
A pochi km da Nardò la deliziosa località balneare di Santa Caterina al Bagno, dove abbiamo pranzano. La scogliera è coperta da un grande prato e consente di passare ore piacevoli, stesi con lo sguardo che si perde nel blu.
La spiaggia è sovrastata dalla torre, situata su uno sperone roccioso a strapiombo sul mare. Venne eretta nella seconda metà del XVI secolo con funzioni difensive su progetto del viceré spagnolo che redasse un sistema di controllo delle coste della penisola salentina, contro gli attacchi dei saraceni. L’interno, costituito da due ambienti sovrapposti, è provvisto di cisterna per l’approvvigionamento dell’acqua; il piano terra era adibito al deposito delle scorte, il primo piano, diviso in quattro ambienti, era utilizzato come abitazione dei cavallari (così venivano chiamate le guardie che presidiavano la torre e in che in caso di eventuali arrivi di pirati lo segnalavano ai paesi dell’entroterra utilizzando il cavallo
All’ora preferita della sera siamo saliti alla torre di avvistamento ed è stata magia.
Siamo veramente circondati da tanta bellezza e condividerla con chi ama le stesse cose è magia.
Castelli che custodiscono segreti di un tempo che si vorrebbe perpetuare con echi di leggende e tradizioni che evocano riti e celebrazioni di profonda devozione popolare: siamo a Carovigno.
Il suo splendido castello ha conosciuto molti proprietari e subito grandi trasformazioni, fino a diventare un’importante residenza gentilizia già prima del XVII secolo.
Il Castello Dentice di Frasso è uno degli oltre trenta castelli della Puglia Imperiale, che ci dà il senso della fortezza, ma aggraziato con ricchi decori barocchi. Qui l’attenzione si focalizza sulle forme particolari di una struttura rimaneggiata nel tempo, evidenziate dalla minimalità che aleggia negli spazi interni, rimasti in gran parte spogli di arredi, mobili e suppellettili.
La fortezza fu eretta nel XII secolo in stile normanno-pugliese probabilmente su un preesistente sito messapico.
All’interno, sull’arco del portone principale, c’è il blasone in pietra del casato Dentice di Frasso e sotto lo scudo, lungo il nastro sinuoso dalle code bifide, la scritta ‘Noli me tangere’ (non mi toccare). A sinistra del portone una pianta di kenzia ormai ultracentenaria, messa a dimora dalla stessa contessa Elisabetta Schlippenbach.
A destra una splendida balconata in pietra calcarea, sostenuta da 18 mensole finemente lavorate aggiunta come elemento decorativo nel XVIII secolo.
Da un piccolo cortile interno si accede sia alle “segrete” che ai piani superiori. Le prime sono cunicoli stretti e bassi, con locali scavati nella roccia, che scendono di circa 5 metri sotto il livello stradale. Nati probabilmente come prigioni, divennero in seguito depositi per olio e vino, nevaio e magazzini, purtroppo si accede solo con la guida, che domenica non era disponibile.
Delle sofferenze nel passato di Elisabetta, si è saputo solo dopo il ritrovamento di un diario di memorie, racchiuso in una cartella in seta verde bordata e legata con un cordoncino. Nelle pagine del diario si racconta dello scalpore negli ambienti cattolici e benpensanti di corte per quell’inaccettabile divorzio, da quel marito, molto più anziano, impostole prima dei 17 anni.
Donna forte di nobile casata austriaca che a fine Ottocento sceglie la libertà separandosi dal marito e da una realtà molto agiata. Rinuncia al figlio, viaggia per un lungo periodo sino all’incontro con Alfredo e l’amorevero. La immaginiamo in una delle splendide terrazze del castello, nelle sale destinate al laboratorio di tessitura, nei giardini.
Il centro storico di Carovigno è piccolo. Lo giriamo a piedi e godiamo del silenzio prima di entrare in una piazzetta con musica dal vivo e buono street food.
Di chiese a Carovigno ne troverete tante, ciascuna con una storia diversa. Case bianche tinteggiate a calce, le coorti, i cortili ingentiliti da una panchina colorata, una pianta di fico d’india, preziosi accenni delle epoche passate.
Le temperature piacevoli ci invitano a spostarci lungo la costa, nella frazione di Carovigno, Torre San Sabina. Una normale spiaggia della costa adriatica che nasconde una storia antichissima e affascinante: quella di un porto molto importante, utilizzato fin dal VII secolo a.C. dalle navi mercantili oggetto dei traffici con la Grecia.
Siamo ad ottobre inoltrato, è la Puglia regala ancora giornate indimenticabili.
Alcuni giorni fa ho pubblicato alcune cartoline dalla Basilicata, anticipando l’argomento di questo breve tour.
Il 14 agosto abbiamo deciso come sempre si rinuciare al mare, perchè sempre troppo affollato, e siamo partite alla volta di Pietragalla, un piccolo comune della provincia di Potenza, dove la cultura del vino è rappresentata da una particolarissima architettura rurale: il parco dei Palmenti.
Si tratta di piccole case di pietra agglomerate, con i tetti ricoperti di erba e piccole porticine come uscio. E’ un luogo spettacolare al di là di ogni immaginazione, sembra di essere catapultati nella contea degli Hobbit de “Il Signore deglia anelli”.
I palmenti per Pietragalla rappresentano il luogo che un tempo profumava di uva e di mosto, il cuore pulsante di un’antica civiltà contadina.
Ogni palmento è caratterizzato da una o più vasche al suo interno, da una piccola porticina per l’ingresso e da una feritoia in alto utile alla fuoriuscita dell’anidride carbonica che si creava durante la fermentazione. L’uva raccolta nei vigneti circostanti e trasportata con asini in bigonce, veniva versata nella vasca più piccola e alta e pigiata a piedi nudi. Trascorso il periodo di fermentazione il vino veniva spillato dalle vasche in tufo per essere trasportato nelle “rutt” ovvero, le cantine costruite direttamente al di sotto del piano viabile sul quale il paese in forma circolare e concentrica è collocato.
Se i palmenti nascono li dove nasce il sole, ovvero a sud est di Pietragalla, per permettere di cominciare il lavoro all’alba, le rutt sono state costruite a nord, nella parte più ventilata e più fredda del paese detta Mancusa. Le rutt inoltre, grazie al tufo mantengono un livello sia di umidità che di temperatura costante per tutto l’anno proteggendo il vino dal caldo estivo e dal gelo invernale.
Il vero tuffo nel passato lo abbiamo fatto con la visita alla Casa Museo della civiltà contadina. Qui siamo state catapultate in un’epoca fatta di pizzi e oggetto di uso comune che raccontano di famiglie benestanti e di contadini, che testimoniano la vita dura nei campi e la frugalità dei pasti.
Da Pietragalla ci siamo spostate, sulla sommità di un colle a 800 metri di altitudine, dove sorge un borgo di grande fascino e mistero: Acerenza. La serata è inziata nel borgo storico che formicolava di gente per una notte bianca tutta particolare, in cui otto antiche botteghe, chiuse da anni, sono state trasformate in pop-up espositivi temporanei, per “un’immersione creativa multisensoriale”
Veduta panoramica dalla nostra stanzaNotte bianca ad Acerenza
Conosciuta anche come la “Città del Duomo” per via della maestosa cattedrale dedicata a Santa Maria Assunta, che domina l’antico borgo, nasconde nei suoi vicoli lastricati misteri e leggende, a cominciare dal Santo Graal che ne esalta il fascino.
Duomo
In pochi lo sanno, ma il fondatore dell’ordine dei Templari nacque a Forenza, un paese vicino ad Acerenza e per questo motivo Acerenza divenne il luogo di partenza e arrivo dei Cavalieri Templari. Per questo motivo Acerenza è così piena di misteri, al punto che si pensa sia proprio qui il Sacro Graal. Nella cripta della Cattedrale si può vedere una piccola finestrella da sempre murata e molti studiosi hanno ipotizzato che proprio qui si possa trovare la coppa dell’ultima cena.
Il mistero si infittisce con un’altra leggenda: si racconta che la cattedrale ospita anche la salma della figlia del conte Vlad III di Valacchia, famoso come il Conte Dracula. Alcuni tratti distintivi dell’edificio, tipici dell’arte architettonica rumena, possono essere attribuiti alla stirpe del temibile Impalatore, in particolare un drago alato, simbolo della nobiltà della Transilvania.
Acerenza è misteriosa e invita a perdersi nei suoi vicoli, dove spiccano antichi palazzi storici, con portali in pietra splendidamente decorati e varie fontane. Dietro la cattedrale, dalbelvedere “Torretta”, si gode di una magnifica vista del paesaggio dell’Alto Bradano disegnato da vigneti, boschi secolari, alberi monumentali e sorgenti millenarie: un vero spettacolo visivo e spirituale.
Ad Acerenza, inoltre, c’è un allevamento di irrestitibli Alpaca. Animali originari delle Ande sudamericane, abituati a vivere a migliaia di metri d’altezza che però hanno ritrovato le condizioni ideali di vita nel silenzioso paesino.
Prima di rientrare siamo passate dal lago di Acerenza. Una diga artificiale famosa per i boschi che la circondano e l’acqua del lago verde smeraldo, al punto che sembra di essere in uno dei tanti pittoreschi laghi delle alpi.
Spero di evervi incuriosito in questo breve viaggio e con le nostre foto.
Scrivo in differita di giorni questa pagina. Avrei bisogno di altro tempo per fermare il tempo, ma le mie due bambine sono un acceleratore continuo, oltre al lavoro, in questo periodo.
Vi raccontiamo una domenica insolita a Taranto, allaricerca dei delfini liberi in mare.
Abbiamo mollato gli ormeggi e, con l’associazione JDC Jonian Dolphin Conservation, ci siamo diretti nel blu profondo del Golfo di Taranto. L’associazione svolge attività essenzialmente di ricerca, condotta su esseri viventi liberi e selvaggi, nel loro habitat naturale ed in maniera assolutamente non invasiva. Non aspettatevi di nuotare con loro o di toccarli, ma vi assicuro che osservarli nel loro ambiente vi trasmetterà un’emozione che rimarrà impressa per sempre.
Siamo salpati dal molo S. Eligio, navigando nelle tranquille acque del Mar Grande e, mentre i ragazzi ci spiegavano le loro attività, siamo arrivati in mare aperto. La costa non si vedeva più. Le biologhe con i loro binocoli aguzzavano la vista alla ricerca di una pinna. Eravamo ormai rassegnate a non vederli, ma all’improvviso una di loro indicava la rotta al comandante. Aveva visto un balzo!
Il cuore ha accelerato e istintivamente siamo scattate tutti in piedi eccitati, ma le biologhe ci hanno raccomandato voce bassa e pochi rumori per non spaventarli.
Ciò che è accaduto subito dopoè difficile da descrivere.
Non saprei dire quanto tempo abbiamo trascorso a guardarli, incantati, ma quando è giunto il momento di tornare indietro, ci è sembrato davvero troppo presto. Si era fatto tardi ed eravamo troppo lontani dalla costa.
Merita anche di essere raccontato, però, il viaggio di rientro.
A circa due miglia della costa, siamo stati sorpresi da una improvvisa e violenta tromba d’aria che ha messo in serie difficoltà tutto l’equipaggio. Io e mia madre, abbiamo abbracciato le bambine con il telo da mare, cercando di riparlarle dalla pioggia battente, ma sentivamo le gambe martellate dalla grandine. Indescrivibile. Lo staff, prontamente, ci ha fornito i giubbini salvataggio. Eravamo terrorizzati.
Ma fortunatamente è andato tutto per il meglio.
Solamente quando siamo arrivati in porto ed è tornata la connessione internet abbiamo compreso la portata della tromba d’aria attraverso i social. Qualcuno sulla terra ferma ha avuto una crisi di panico, qualcuno piangeva ancora.
Ma dopo dieci minuti eravamo li a parlare della meraviglia della natura e dello spettacolo visto nel blu profondo e tra una chiacchera ed un’altra eravamo già asciutte. Era già lontano il ricordo di quella strana tempesta.
Il fiume Tara ci stava aspettando.
Secondo la leggenda, circa 2000 anni prima della nascita di Cristo, il giovane Taras sarebbe giunto presso il corso d’acqua, che da lui stesso avrebbe preso il nome. Sempre secondo la leggenda, Taras avrebbe edificato una città prima di scomparire nelle acque del fiume e di essere assunto fra gli eroi dal padre Poseidone.
La leggenda collega Taras anche ai delfini. Si racconta infatti che, mentre il giovane si trovava sulle rive italiche dello Ionio, sia apparso improvvisamente un delfino, segno che interpretò di buon auspicio e di incoraggiamento per fondare una città.
Alle acque del Tara la popolazione attribuisce da sempre virtù terapeutiche, considerandole rimedio efficacissimo contro i reumatismi o persino malattie ben più gravi. All’origine di questa frequentazione del fiume vi è una antica leggenda secondo la quale un contadino portò un vecchio asino malato a morire lungo le sue sponde, ma ripassando dopo qualche mese rivide l’animale risanato proprio dalle acque del fiume.
Ancora oggi il 1 settembre di ogni anno si vedono gruppi di persone devote alla Madonna del Tara, immergersi all’alba recitando il rosario tutti insieme per ringraziare Dio della buona salute concessa e propiziarsi un futuro senza malattie.
Dal 1950 le acque del fiume Tara sono utilizzate per l’irrigazione dei campi, per la raccolta dei giunchi che crescono in abbondanza lungo le sue sponde e, dagli abitanti di Massafra,per intrecciare cesti e sporte.
Anche Taranto, ormai, è entrata in punta di piedi nel nostro cuore 🙂
Nel nostro girovagare per il territorio Cilentano ci siamo ritrovati in luoghi suggestivi ed incantevoli.
Dopo aver lasciato Paestum e partiti alla direzione di Camerota, ci siamo imbattuti nel fiume Mingardo, quasi alla fine del suo percorso, esattamente all’ingresso della “gola del Diavolo” nel territorio di San Severino di Centola. La natura qui è ovunque, nel verde intorno al paese, nelle fresche sorgenti che irrigano la valle e nel bellissimo mare.
Dopo aver sfiorato queste gelide acque ci siamo diretti verso Marina di Camerota, un pittoresco paese di pescatori nel cuore del Parco Nazionale del Cilento.
La gita in barca permette di vivere l’incanto di una natura incontaminata, con le sue piccole baie, le grotte e le piccole spiagge. Abbiamo iniziato il tour con Cala Fortuna, Gotta degli innamorati, Grotta Azzurra e tante altre.
Per noi le piu belle sono state:
-Cala Bianca, una piccola spiaggetta che deve il suo nome al colore bianco dei ciottoli presenti sull’arenile che donano uno spettacolo unico per chi osserva la spiaggia dal mare cristallino;
– Grotta delle Naglie che prende il nome dalle stalattiti e stalagmiti presenti all’interno, rassomiglianti a salciccie piccanti locali. Questo luogo ha rivestito la funzione di magazzino da pesca fino al 1936 e qui si rifugiavano i marinai, quando si praticava la pesca del tonno;
-La baia degli Infreschi, un’insenatura naturale, delimitata da scogliere rocciose, con un mare limpidissimo e dalle diverse tonalità.
La sera a cena, in una trattoria, abbiamo avuto un suggerimento e prima di andare per i “Capelli di Venere” abbiamo deviato per le Grotte del Bussento, un’Oasi del WWF.
L’entrata nel sito naturalistico è abbastanza anonima e non lascia presagire nulla dello spettacolo che da li a poco si sarebbe mostrato ai nostri occhi.
Raggiunta una scalinata che scende ripida, si apre l’incanto: un canyon rivestito da lussureggiante vegetazione, un ruscello dalle acque cristalline, sorgenti, cascate e un antico mulino.
Un’operatrice molto gentile ci ha spiegato il funzionamento delle chiuse per far girare la ruota e come venivano macinate le castagne per farne la farina.
E poi, altre cascate, altri laghetti, fino a quando arriviamo alla grotta dove si assiste alla risorgenza del fiume carsico Bussento. Un vero spettacolo della natura. Uno di quelli che ci fa sentire piccoli piccoli di fronte alla magnificenza del creato.
Qui risorge il fiume Bussento, dopo oltre 4 km nelle viscere delle terra. Si tratta dell’unico fiume dell’Italia peninsulare con un tragitto sotterraneo così lungo, iniziato nei pressi del vicino borgo di Caselle in Pittari, dove sparisce in un gigantesco inghiottitoio. Alla Grotta si accede tramite un portale enorme alto 320 metri e largo 10. Un percorso attrezzato sui gradoni delle pareti laterali conduce fino ad un ponte in legno che scavalca il corso del fiume, consentendo di affacciarsi su un ramo fossile della grotta che si sviluppa per oltre 50 metri.
Dopo l’Oasi del WWF ci siamo immersi nella leggenda dell’Oasi Capelli di Venere.
Si narra, infatti, che un giorno la dea Venere, per darsi ristoro dal caldo e trovare un po’ di pace si recò in questa meravigliosa oasi. Un giorno si trovò a passare un pastore con il suo gregge. L’uomo udì la voce suadente di una fanciulla che si dilettava a cantare e a ballare e perdutamente se ne innamorò. Amava tutto di lei, la sua voce, i suoi occhi ma soprattutto i suoi lunghi capelli biondi. Così una notte, mentre Venere dormiva, si avvicinò e ne tagliò una bella ciocca. La dea si svegliò di soprassalto ed arrabbiata per quel vile gesto, tramutò quella ciocca in acqua che immediatamente scivolò dalle mani dell’uomo, aumentando di intensità e di volume tanto da annegarlo. Venere comprese l’amaro suo gesto e l’amore e decise di trasformare quelle acque in cascate.
Il cilento è veramente una meravigliosa terra, dal fascino particolare, tra miti, leggende, mare e un bellissimo entroterra.
Voglio percorrere le dolci colline e le città abbarbicate alla roccia e rivedere il sole tramontare come una palla infuocata che si tuffa nel mare.
E mentre lasciavo questi luoghi per tornare a casa, pensavo: “Qui voglio proprio tornare”. Perché qui ci sono ancora tanti gioielli da scoprire.
Voglio ripercorrere le dolci colline e rivedere le città abbarbicate alla roccia. Voglio rivedere il sole tramontare come una palla di fuocata che si tuffa nel mare.