Il borgo di Oria è un insieme di stradine tortuose che tra scalinate, passaggi pedonali, colonne romane, mura medioevali e chiese rinascimentali lo rendono un piccolo gioiello dell’entroterra pugliese, ricco di mistero e fascino. Siamo giunti a Piazza Manfredi, punto nevralgico della città, dove oggi come in passato la gente è solita incontrarsi e scambiare due chiacchiere. La piazza si presenta come un corridoio che si allarga in corrispondenza del palazzo del Sedile, dove ci attendeva la Pro Loco.
Il tour “Oria Sotterranea” ci ha rivelato un borgo ricco di storia, racchiuso da un alone di mistero.
Siamo nel medioevo e a causa dei ripetuti crolli, il progetto per edificare il castello si arrestava continuamente. Si diffuse la voce che la città fosse stata colpita da una maledizione, così su consiglio di alcuni veggenti, si decise di sacrificare una bambina innocente e di spargere il sangue lungo il perimetro del castello. La madre disperata per la morte della sua bambina lanciò un monito contro la città: “Possa tu fumare Oria, come fuma il mio cuore esasperato“. Da questa leggenda l’appellattivo di “Oria fumosa”.
Dal Palazzo del Sedile raggiungiamo la Chiesa di S. Antonio da Padova, che custodisce alla suo interno la cripta di San Mauro, visibili sulle pareti ancora gli affreschi, centralmente San Mauro, a destra la Madonna del Melograno.
Lungo le pareti sono pesenti vani verticali, probabilmente preposti ad accogliere i defunti.
Rientriamo attraverso una delle porte della città e giungiamo alla Chiesa di S. Maria dell’Assunta, costruita in stile barocco su una precedente struttura romanica. Questa splendida chiesa cattura lo sguardo fin dal primo istante con la sua imponente cupola, le sue mattonelle policrome e il lanternino a bulbo arabo che aggiungono un tocco di eleganza e raffinatezza al profilo architettonico dell’edifico.
Sotto le sue fondamenta, si cela una sorpresa: la Cripta delle Mummie. Unico nel suo genere non solo in terra salentina, ma al mondo. La cripta delle Mummie è il solo caso in cui ad avere l’onore di essere mummificati sono stati dei laici.
La storia inizia quando Otranto viene invasa dai turchi ed Oria corre in soccorso e come onorificenza a chi tornava vivo veniva concessa la mummificazione.
Il progetto aveva lo scopo di dar loro riconoscenza eterna. Tuttavia, nel 1806, Napoleone Bonaparte emise un editto con il quale vietava le sepolture nelle chiese e le imbalsamazioni. Gli studi sulle mummie però hanno rivelato che tra quelle giunte fino ai giorni nostri, soltanto una è antecedente l’editto, mentre le altre sono tutte riconducibili al periodo successivo, fino al 1858. Prova che ad Oria si continuò clandestinamente la pratica della mummificazione. Il salone in cui si trovano le mummie presenta una volta a botte ed il pavimento in terra battuta sul quale sono poste tre botole che permettono l’accesso ai cunicoli sotterranei allestiti per l’inumazione e conducenti fino alla Torre Palomba. Sopra le nicchie contenenti i corpi degli ultimi confratelli mummificati, vi è una struttura sulla quale sono poggiati i teschi di coloro che sono morti da più tempo.
Ultima tappa di questo tour, Palazzo Martini, situato nel cuore del centro storico di Oria. Il palazzo ospita reperti storic che coprono un arco temporale compreso tra l’età arcaica e quella imperiale romana ed offrono la possibilità di cogliere aspetti significativi della realtà socioculturale delle popolazioni messapiche in relazione al culto dei morti e alle usanze funerarie.
Gli scavi archeologici hanno portato alla luce migliaia di reperti, identificati come offerte votive che riconducono al culto di Demetra e Persefone, in una grotta che si trova sul Monte Papalucio, poco distante dalla città. Echi di antichi culti di guarigione – la papagna” e “lu ‘nfascinu”- che echeggiano ancora nella tradizione contadina.
Un borgo da non perdere assolutamente! Noi ci siamo state in primavera, con il naso all’insù tra il blu e le nuvole che correvano veloci.
L’ultimo giorno a Barcellona ci lasciamo scivolare dolcemente tra le strade del Gotico. I ricordi sono tantissimi, ogni angolo, ogni albero del quartiere avrebbe da raccontare la propria storia.
Iniziamo dalla Rambla. Un’ampia via pedonale costellata di negozi, di bancarelle di fiori colorati e artisti di strada. Uno dei punti focali di questa strada è il Mercato de La Boqueria, un mercato alimentare coperto che offre una vasta gamma di prelibatezze, corridoi colorati, profumi irresistibili di frutta, verdura, carne, pesce e dolci tradizionali.
Dalla Rambla ci siamo addentrati nel quartiere Gótico, un luogo intriso di storia e fascino, caratterizzato da strade lastricate strette e tortuose, edifici medievali imponenti e angoli pittoreschi che ti trasportano indietro nel tempo.
Passando per la necropoli romana e attraversando la via del cioccolato, siamo arrivati in Plaça del Pi, dove si trova la Basilica di Santa Maria del Pi, costruita in stile gotico-catalano. Secondo la tradizione, il nome della basilica deriva dal ritrovamento dell’immagine della Vergine dentro un tronco di pino e sempre per lo stesso motivo venne piantato un albero di pino proprio davanti la porta della chiesa.
Nella chiesa del PI si trovano El Gegantes, giganti della tradizione, ancora utilizzati negli eventi religiosi, seppur in una versione più leggera da sostenere durante la processione.
Proseguendo la nostra passeggiata ci siamo recati alla Cattedrale di Barcellona, dedicata a Santa Eulalia, patrona della citta’. Durante il dominio romano, l’imperatore Diocleziano ordinò la persecuzione di tutti i cristiani, la piccola Eulalia osò sfidare il console romano e venne condannata a subire 13 torture, tante quanti gli anni che aveva.
La cattedrale è di stile gotico, costruita a sua volta sopra un’antica chiesa di stile romanico. Ma la facciata è posteriore e risale addirittura al diciannovesimo secolo, quando fu indetto un concorso per la sua realizzazione, al quale parteciparono vari architetti.
L’edificio è famoso per il suo chiostro risalente al ‘300, in cui vivono tredici oche, ognuna rappresenta un anno di vita della martire Santa Eulalia.
Dinanzi alla Cattedrale, la scritta Barcino e le due torri romane, ci ricordano il passato romano della città e lungo un lato della Cattedrale si trova “uno dei luoghi più fotografati” del Barrio Gotico: il Pont del Bisbe.
Il ponte in realtà non e’ antico, risale al 1928, il suo stile è ispirato al gotico fiammingo e veniva utilizzato dalle personalità della politica per passare da un edificio all’altro. Una leggenda narra che basta camminare in senso contrario ed esprimere un desiderio guardando negli occhi il teschio presente sotto il ponte per farlo avverare.
A poca distanza dalla cattedrale un’altro luogo ormai iconico della citta’: il murales del bacio. Si tratta di un grande fotomosaico realizzato nel 2014 per commemorare la caduta della città durante la guerra di seccessione spagnola. Il giornale spagnolo chiese ai propri lettori di inviare fotografie che ricordassero momenti di libertà. Da lontano si vedono due labbra che si baciano, ma avvicinandosi si scopre che ci sono 4.000 piastrelle, ognuna di esse immortala la felicità fatta di momenti quotidiani.
Ci siamo diretti verso Casa de l’Ardiaca, un edificio gotico vicino alla Cattedrale dove vivevano gli arcidiaconi, un’ordine ecclesiastico ora scomparso. Negli anni l’edificio ha avuto molteplici usi e nel 1902 un architetto fu incaricato di abbellire l’edificio. Ogni elemento decorativo ha un suo significato particolare: lo scudo, le rondini, latartaruga e l’edera. Una curiosa allegoria della giustizia: la giustizia cerca di volare alto come le rondini ma gli impedimenti burocratici (l’edera) la rendono lenta come una tartaruga.
Una delle ultime tappe nel quartiere è stata la piazza che ospita la Chiesa di San Filippo Neri. E’ una piazza veramente speciale, per la tranquillità che si respira e per la storia che nasconde.
Una fontana al centro, una chiesa sullo sfondo, due case e un bar sono tutti gli elementi che la compongono. Sulla facciata della Chiesa, che da’ il nome alla Piazza, sono ancora visibili i segni del bombardamento aereo del 30 gennaio del 1938 da parte dell’aviazione italiana fascista, alleata di Franco.
La figura di Gaudì è strettamente legata a questa Chiesa. L’architetto si recava tutti i pomeriggi per pregare e fu proprio in quel frangente che, il 7 giugno 1926, venne investito e morì. I passanti lo scambiarono per un barbone e non lo soccorsero. All’interno della chiesa ci sono due dipinti realizzati da un pittore, grande amico di Gaudì. L’artista dovendo dipingere la faccia del santo Filippo Neri chiese al suo amico di posare per lui.
Prima di andar via sono andata a caccia di una terrazza per vedere la città dall’alto. Ormai in molte città gli hotel mettono a disposizione le loro terrazze e noi siamo stati nel quartiere El Raval. Questo quartiere è caratterizzato da una mescolanza di culture e ha subito una trasformaione significativa in questi anni. Qui potrete scoprire una vivace scena artistica e culturale, con gallerie d’arte, negozi vintage, mercati locali e una varietà di ristoranti etnici ed una delle viste panoramiche più speciali della città. Grazie alla forma cilindrica dell’hotel, questa terrazza offre una vista di 360 gradi su tutta la città. L’ingresso è gratuito e non vi obbligo di consumazione.
Il richiamo del mare è come sempre assordante ed è bastato guardarlo dalla terrazza per decidere di andargli incontro. Port Vell è stata una piacevole pausa pranzo e poi abbiamo raggiunto la spiaggia di Barceloneta, famosa per la sabbia dorata e le acque blu cristalline.
Questa spiaggia (e tutte quelle di Barcellona in generale), non esisteva prima del 1992, quando in occasione delle Olimpiadi tantissimi quartieri di Barcellona vennero completamente trasformati. La Barceloneta è uno degli esempi più lampanti di tale trasformazione
Ma nonostante questo aspetto “artificiale” qusto luogo è divenuto un vero simbolo della città, un punto di incontro per i residenti e visitatori di tutto il mondo.
Prima di andar via, non poteva mancare un ballo improvvisato di Nicole, che tratteggia le linee dell’hotel W (hotel Vela), sfondo iconico di questo tratto di spiaggia.
Finisce qui il nostro racconto di questa magnifica città. E’ stato veramente arduo sintetizzare questa città unica nel suo genere e spero di esserci riuscita.
Il cielo di Barcellona sfrutta ogni inezia di luce, così che possiamo affondare gli occhi in un cielo blu intenso, sempre.
Sono ritornata per la seconda volta in questa ammaliante città, questa volta in compagnia dei miei figli.
Siamo arrivati alle 17, il tempo di lasciare le valigie e siamo scivolati all’interno della città vecchia, verso il parco della Cittaduella, il cui ingresso è caratterizzato dall’Arco di Trionfo, costruito in occasione dell’Esposizione Universale del 1888 come simbolo di benvenuto. Tra l’arco ed il parco la gente passeggia, ma soprattutto si ferma ad osservare gli artisti che si esibiscono in tutta la loro creativita’.
Con largo anticipo avevamo programmato alcuni ingressi a monumenti storici della città, i cui biglietti spesso vanno sold out. Così il giorno dopo siamo entrati all’interno della straordinaria ed iconica Sagrada Família, il capolavoro incompiuto dell’architetto Antonio Gaudí. Questa basilica unica nel suo genere è uno dei simboli più riconoscibili di Barcellona e rappresenta un esempio straordinario dell’architettura modernista catalana.
L’architettura è intrisa di simbolismo religioso e naturale, con riferimenti alla natura, alla geometria e alla spiritualità. I lavori di completamento continuano ancor oggi, mantenendo viva la visione di Gaudí e rendendo questo monumento una continua evoluzione dell’arte e della creatività umana.
Il percorso della visita alla basilica incomincia ovviamente dalla Facciata della Natività. Una facciata barocca, ricchissima di sculture e simbologie: qui l’elemento dominante è la vitalità, l’allegria, la bellezza.
A differenza delle facciate, traboccanti di storia, l’interno, pur sempre simbolico, è essenziale. La protagonista assoluta è la luce, che filtra tra le colonne, leggermente inclinate, come in un bosco incantato, poiché esse hanno la forma di alberi i cui rami, in alto, come delle possenti mani, sostengono l’intera struttura.
La tonalità dei colori cambia in continuazione, in base alla posizione del sole, dai colori più freddi alla mattina, ai colori accessi, giallo e rosso, alla sera, quando il sole si sposta ad occidente.
Ad occidente si trova la facciata della Passione, a conclusione della vita terrena di Gesù. Le sculture sono volutamente scarne e spigolose e trasmettono una grande sofferenza e tristezza. Non c’è spazio in questa facciata per gli abbellimenti barocchi, per l’allegria.
Subito dopo la Sagrata Familia ci siamo avviati al Palau de la Música Catalana, un gioiello architettonico e culturale situato nel cuore di Barcellona. Questo meraviglioso edificio rappresenta uno dei capolavori dell’architettura modernista catalana e offre una esperienza unica per gli amanti della musica, dell’arte e della bellezza architettonica.
Costruito tra il 1905 e il 1908, il Palau de la Música Catalana è un omaggio all’arte e alla cultura catalana. È stato progettato da Lluís Domènech i Montaner, uno dei principali architetti modernisti della città. Una delle caratteristiche più spettacolari del palazzo è la sua sala da concerto principale. All’interno, un’esplosione di colori e forme, grazie all’uso creativo di vetrate colorate, mosaici e sculture decorative. Il soffitto vetrato a forma di cupola rappresenta un sole splendente, che irradia luce e calore su tutto l’auditorium.
Nel pomeriggio avevamo programmato la visita a Casa Batlló. E’ un vero e proprio viaggio nella mente del visionario architetto catalano che ha disegnato la silhouette di questa città rendendola così unica e sensuale. Non vi aspettate una classica visita, piuttosto un invito ad esplorare l’universo attraverso la luce e il colore, i protagonisti assoluti di Gaudí.
Spettacolare e senza precedenti la sintesi digitale realizzata dall’artista Refik Anadol per illustrare come il mondo interiore di fantasia e tumulto si sia trasformato in architettura moozzafiato.
E’ impossibile non restare affascinati da questa città dal blu intenso, che avvolge ogni cosa.
E se capiteranno, talvolta, giorni dell’inquietudine, riguarderò queste foto straripanti di blu, riavvolgerò all’infinito i video girati, mi ricorderò dei vostri baci e abbracci.
Quando si parla del Salento, nella mente proiettiamo immagini legate a spiagge sabbiose e acque cristalline, ma il Salento è anche borghi e paesi dove respirare il vero spirito pugliese, fatto di tradizioni, storie e sapori. Tra i borghi più belli d’Italia c’è Presicce.
Non appena giungi nel centro storico di Presicce, sei accolto da scorci pittoreschi, vicoli e piazzette che ti catapultato in un’atmosfera d’altri tempi che raccontano la doppia anima di questo luogo, una gentilizia e l’altra contadina.
Ci sono molti palazzi ben conservati, ma essendo di proprietà privata, la maggior non è visitabile all’interno, se non in alcune giornate dedicate, come “Presicce in mostra”.
Possiamo però ammirare le facciate dei palazzi, ingentilite da cornici e archi cinquecenteschi, lungo tutto il tragitto che ci porta sino a Casa Turrita, uno degli edifici storici più particolari del borgo. Edificato nel XVI secolo come parte integrante del sistema difensivo dell’abitato, presenta ancora alcuni elementi originali, come le feritoie, e si distingue per la facciata decorata in bugnato a punta di diamante.
Il Palazzo Ducale, nato su un fortilizio normanno del 1500, è viistabile. Nei secoli ha subito diversi interventi, non da ultimo quello del 1630, in cui la principessa D. Maria Cito Moles volle l’aggiunta della loggia, dei giardini pensili e di una nuova cappella palatina.
Attualmente il Palazzo ospita al suo interno il Museo della Civiltà contadina, riunendo gli attrezzi da lavoro utilizzati da contadini, falegnami, ciabattini e muratori presiccesi. Salendo uno scalone del 1700, al primo piano, si trova una ricostruzione della tipica casa contadina con camera da letto, un telaio e la cucina.
Una volta terminata la visita al museo, senza uscire dal palazzo è possibile raggiungere i giardini pensili da cui si gode la vista sulla Chiesa Madre e Palazzo Villani.
Ci sono voluti solo tre anni (1778-1781) per costruire e inaugurare la Chiesa matrice. In stile tardo barocco, decisamente più sobrio rispetto a quello leccese, è stata costruita su una vecchia chiesa del 1500 (di cui rimane l’antica torre campanaria). Come in molte chiese del Salento, anche in questa vi è un altare dedicato a S. Oronzo che ha protetto questa terra dalla peste del 1656.
Davanti all’ingresso della Chiesa Madre si trova la Colonna di S. Andrea, dedicata al patrono e costruita nel ‘600. Le quattro statue ai lati, tre delle quali acefale, rappresentano le quattro virtù cardinali: Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza. La statua non è rivolta verso la chiesa, ma verso Santa Maria di Leuca, antica via dei pellegrinaggi, forse come forma di protezione.
La colonna racconta anche una storia d’onore e di sangue. Pare infatti che nel XVII secolo il Signore dell’epoca obbligasse le novella spose a passare con lui la prima notte di nozze, lo Ius Primae Noctis. Ma nel 1655, durante i festeggiamenti del Carnevale, il principe si affacciò alla finestra del Castello per salutare i cittadini e ad attenderlo vi era anche un uomo mascherato che deciso a vendicare l’oltraggio subito dall’amata, gli sparò un colpo, uccidendolo.
Questo sarebbe il motivo per cui gli abitanti di Presicce, sono conosciuti in tutto il Salento con il soprannome di Mascarani.
Il Salento, si sa, è da sempre una delle culle privilegiate dell’olio e Presicce, grazie al suo ottimo extravergine d’oliva, si è aggiudicato il titolo di Città dell’Olio.
Di fatto il vero tesoro del borgo, quello che lo rende unico nel suo genere, è rappresentato dal sottosuolo dove si sviluppa un sorprendente dedalo di frantoi ipogei – noti anche come trappeti a grotta– che conservano ancora oggi gli antichi torchi e macine con cui, tra il XIII e gli inizi del XX secolo, si produceva l’olio “lampante” che dal porto di Gallipoli partiva ad illuminare le strade di mezza Europa.
Dei ventitré frantoi in attività, oggi ne restano diciassette alcuni dei quali sono stati recuperati, come il frantoio di via Gramsci e quelli sotto piazza del Popolo, risalenti al XIV secolo.
Scoprirete che i pozzi di decantazione dell’olio funzionavano grazie al principio dei vasi comunicanti e che la temperatura in inverno all’interno dei frantoi era sempre mite e costante, intorno ai 18-20°, grazie anche alla fermentazione delle olive e al calore prodotto dalle lampade ad olio che funzionavano ininterrottamente e dalla fatica degli uomini e degli animali.
La nostra giornata è proseguita alla scoperta delle casine di campagna. Eleganti edifici a due piani, funzionali all’economia agricola del tempo e utilizzati anche come residenza. Presentano portali e scenografiche scalinate con elementi decorativi di derivazione napoletana o di ispirazione spagnola.
Solo 16 km separano Presicce da Santa Maria Di leuca, così decidiamo di rotolare verso sud, sino ad arrivare nel punto più a sud di tutta la regione, dove il mar Adriatico incontra il mar Ionio e godere di un tramonto pennellato da mille sfumature di rosso. Siamo a punta Ristola.
In questa lingua di terra si apre la Grotta del Diavolo. Una grotta che deve il suo nome alle sue particolari caratteristiche: è buia, l’accesso dal piano di capestio è particolarmente ripido, ma soprattutto al ruggito delle onde che si infrangono.
Il Salento è ricco di tradizioni popolari, enogastronomia, borghi nascosti che invitano a un turismo slow e ha ritrovare il proprio ritmo lento e noi amiamo perderci in questa lingua di terra.
Napoli è stata veramente una gita fuori porta, durata pochissimo di cui sentiamo già la mancanza.
Arrivati il sabato di buon’ora, abbiamo percorso il Miglio Sacro, un itinerario che “scende” da Capodimonte attraverso le Catacombe di San Gennaro e arriva nel cuore del quartiere Sanità. Questo tour vi consentirà di scoprire luoghi bellissimi e nascosti della città:
Catacombe di San Gennaro.
Basilica di San Gennaro extra moenia.
Basilica di Santa Maria della Sanità.
Cripta delle Catacombe di San Gaudioso (esterno).
Basilica di San Severo fuori le mura e Cappella dei Bianchi con visita esclusiva all’opera “Il figlio velato” di Jago.
Palazzo Sanfelice e dello Spagnuolo.
Porta San Gennaro.
La visita ha inizio dalle Catacombe di S. Gennaro, disposte su due livelli non sovrapposti e caratterizzate da ambienti molto ampi, rispetto a quelli delle catacombe di Roma, poiché scavate nel tufo napoletano, materiale facilmente lavorabile e nello stesso tempo resistente. Scendiamo nel livello Superiore della Catacomba dove si è subito immersi in questa antica città fatta di gallerie, cubicula, arcosoli, loculi a parete o scavati nel suolo.
In un arcosolio del VI sec. è raffigurata una famiglia con una bambina al centro, morta all’età di soli 10 anni. Le vesti preziose ed i gioielli suggeriscono che trattasi di una famiglia agiata, ma la vera particolarità di questo affresco è di essere composto da tre strati sovrapposti, infatti alla morte di ogni componente della famiglia, l’affresco veniva ridipinto
L’espansione della Catacomba Superiore avvenne a cominciare dal V secolo a seguito della traslazione delle reliquie di S.Gennaro in questa catacomba, che da lui poi prese il nome. La catacomba infatti divenne un luogo di pellegrinaggio e un luogo ambito di sepoltura e da qui la necessità di scavare altre gallerie e cubicula per dar modo di essere seppelliti più vicino possibile al Santo.
Finito il tour sotterraneo siamo riemersi in uno spazio caotico, con una moltitudine di voci difficili da distinguere, motorini sfreccianti e musica ad alto volume proveniente da una palazzina sopra il nostro naso, dove tre bambine ed un cane si affacciavano al balcone in canotta, improvvisando balletti con il piumino della polvere. Napole è un bel caos.
Eravamo nel Rione Sanità e qui la bellezza è ovunque, scritta sui muri, nei vicoli, nel profumo dei panni stesi e in quello irresistibile di fritto.
Ci siamo addentrati nel mercato di vie delle Vergini, in un brulichio di gente che si muoveva da una bancarella all’altra, tutte colorate, colme di ogni tipo di merce in bella vista, con cartelli a volte anche molto bizzarri e fantasiosi.
Ai margini di piazza Cavour, l’ingresso del Palazzo dello Spagnolo, quasi nascosto dall’affollato mercato locale. Si tratta di uno dei più antichi ed affascinanti palazzi nobiliari di Napoli, capolavoro dell’architetto Sanfelice. Oggi il palazzo è divenuto un condominio e la sua proprietà è divisa tra molteplici famiglie.
Sempre lungo via Sanità vi è anche il Palazzo Sanfelice, simbolo del passato nobiliare della città partenopea, di quegli anni d’oro in cui Napoli era una delle capitali europee.
Il Palazzo si presenta grigio, in netto contrasto con il vicino Palazzo dello Spagnolo che appare restaurato e dai colori vivaci. Tuttavia, forse, è proprio questo suo aspetto trascurato a conferirgli l’enorme fascino di cui gode oggi, immortalato anche in tanti film e serie televisive.
Nel Rione Sanità – forse più che in altri luoghi – l’arte di strada (street artist) viene spesso usata per denunciare, per far conoscere, comprendere e per sensibilizzare. Lo fa Banksy e lo segue Jacopo Cardillo, in arte Jago, l’artista di Frosinone di fama internazionale, che ha scolpito, il Figlio Velato. L’opera nata a New York ha trovato la sua collocazione a Napoli e racconta la storia di un bambino, vittima innocente delle scelte degli adulti. È una storia di criminalità, di migrazioni, di stragi e di sacrifici inaccettabili. Un’opera che parla da sola.
Nel pomeriggio ci siamo dirette al Monastero di Santa Chiara, risalente al 1310, voluto dal re Roberto d’Angiò e sua moglie. Probabilmente fu proprio sua moglie che decise di realizzare questa piccola cittadella francescana, forse per rendere omaggio al suo desiderio represso di vita monastica. Tra i pittori che affrescarono la Basilica annessa al Monastero, Roberto D’Angiò chiamò anche Giotto. Purtroppo del passaggio di Giotto a Napoli, in Santa Chiara, restano solo piccoli frammenti.
Molto poetico il chiostro maiolicato delle Clarisse, trasformato nel 1742 da Domenico Antonio Vaccaro con pilastri, intervallati da sedili maiolicati con motivi agresti, marinari e mitologici. Il connubio tra gli accesi colori delle maioliche e il profumo degli agrumi riporta in Andalusia.
Il complesso monumentale di Santa Chiara è sopravvissuto negli anni e al susseguirsi di vicissitudini che lo hanno messo in pericolo, non ultimo il bombardamento aereo del 1943 che sventrò la basilica riducendolo in macerie. Seguirono restauri piuttosto incisivi.
Dal monastero è semplice arrivare in via San Gregorio Armeno, famosa in tutto il mondo per i suoi presepi.Qui la tradizione presepiale ha origine antica e il mestiere di solito viene tramandatodi padre in figlio. È difficile descrivere a parole o con immagini la moltitudine di botteghe, negozietti e bancarelle coloratissime, che sono aperte tutto l’anno.
Sempre nel centro storico di Napoliè tornata visitabile la Chiesa di Santa Luciella ai Librai, famosa e conosciuta come la Chiesa del teschio con le orecchie. Dalla Sacrestia poche scale conducono all‘Ipogeo, luogo dedicato alle sepolture e al culto delle anime “pezzentelle”.
Nel 1656, periodo tristemente noto per l’epidemia di peste, chi perdeva la vita veniva seppellito nelle fosse comuni e per questo motivo si perdeva l’identità dei cadaveri che non potevano più essere pregati nei luoghi di memoria. Da qui derivò l’usanza di adottare un teschio, una capuzzella, di cui prendersi cura per offrire conforto alle anime del Purgatorio in cambio di una grazia.
Quando i miracoli chiesti si avveravano, le donne erano solite ricompensare le capuzzelle portando in dono degli ex voto, spesso dalle connotazioni tipiche del miracolo ricevuto. All’interno della Chiesa di Santa Luciella se ne notano infatti di ogni tipo e spesso rappresentanti le parti del corpo che erano guarite proprio per merito della grazia ricevuta.
All’interno dell’Ipogeo è possibile notare una capuzzella davvero molto particolare rispetto alle altre: un teschio che sembra avere le orecchie e per questo motivo considerato speciale rispetto agli altri in quanto più “ricettivo” alle preghiere, da qui “Chiesa del teschio con le orecchie”.
Recenti studi condotti dai paleopatologi hanno in realtà stabilito che si tratta di un fenomeno di distaccamento dalle pareti laterali del cranio. Oggi molti visitatori si uniscono al culto della “capuzzella” lasciando nell’ipogeo bigliettini con preghiere.
Napoli è veramente bella e il Rione Sanita’, che spesso non viene inserito nell’itinerario di viaggio è stato dirompente, energico e bello.
Il giorno dopo dovevo mantenere una promessa fatta a Giada e siamo state al Gran Cono del Vesusio. E’ stato veramente bello ed emozionante.
Lo spettacolo davanti ci offriva una delle più belle vedute sul Golfo di Napoli.
Vedere ilVesuvio da vicino, anzi, avere il cratere principale ad un palmo dal naso, che in alcuni punti sbuffa è straordinario. Ne La Ginestra Leopardi scriveva che, nonostante la sua presunzione, l’uomo può nulla contro la natura, che l’uomo è infinitamente piccolo. Sul camino vulcanico ci si sente veramente piccoli, ma circondati da maestosa bellezza.
Prima di tornare a casa siamo ritornate indietro verso Napoli per scoprire uno dei borghi più belli della zona. Il porticciolo di Posipillo, “Mare Chiaro”.
E’ una domenica di Gennaio che sa di primavera, che corre. Ci sono 17 gradi in questo angolo colorato che profuma di mare.
Con questi ultimi ricordi si chiude il breve viaggio a Roma. Nelle gambe abbiamo ancora gran voglia di andare, di vedere, perchè la grande sfida non è solo accumulare ricordi, ma vedere, vivere.
Per quest’ultimo giorno ci siamo rivervati la visita ad un palazzo antico, ingrigito dallo smog della città, ma ancora sontuoso: palazzo Doria Pamphilj, di proprietà della nobile famiglia che ha fatto la storia di Roma. La casata annovera un papa, Innocenzo X, dal quale ebbe origine la collezione ospitata ancora all’interno del palazzo. E’ lo stesso erede Jonathan Doria Pamphilj, ha raccontarci la storia della famiglia attraverso l’audio guida. Il pontefice Innocenzo X nominò nel 1644 suo nipote Camillo cardinale, lui però disattendendo la volontà dello zio, rinunciò alla propria carica cardinalizia per sposare Olimpia Aldobrandini. Olimpia portò in dote il palazzo e una grande collezione di dipinti e sculture, che affluirono in quella che oggi è nota come la collezione Doria Pamphilj.
L’impressione entrando è di grandiosità e magnificenza. La collezione racconta il raffinato gusto delle famiglie Pamphilj e Aldobrandini, che nei secoli non si fecero mai mancare opere dei più grandi artisti, da Caravaggio a Guido Reni, da Raffaello ad Annibale Carracci, Carlo Saraceni e Velazquez.
Il capolavoro di Velazquez ci attende in una piccolissima sala blu, affiancato al busto realizzato da Gian Lorenzo Bernini. Impossibile non rimanere sopraffatti dell’intensità dello sguardo di Innocenzo X, che sembra ci osservi da dentro il dipinto.
Da Palazzo Doria ci siamo diretti verso Piazza Navona, arredata in questo periodo da bancarelle, luci, pallocini e dall’iconica giostra. La Piazza è una delle più caratteristiche di Roma, costruita dalla famiglia Pamphili, simbolo della Roma barocca.
Interamente rivestita di sampietrini ha un obelisco e tre fontane, la Fontana del Moro, la Fontana del Nettuno e la più nota, la Fontana dei Quattro Fiumi opera del Bernini.
Non poteva mancare la mostra “Emotion” d’arte, presso il Chiostro del Bramante, un percorso espositivo dedicato ai sentimenti, in cui stupirsi, commuoversi, gioire, ma anche provare imbarazzo, paura e nostalgia.
In una stanza l’unico arredo era un materasso, con quali e quante parole può essere identificato? Per me è OFF, fermarsi, restare in silenzio, non aver fretta, anche se quella fretta io ce l’ho addosso e fa parte di me da sempre. Ma è stato comunque un bagliore che induce a riflettere.
La struttura, progettata dal Bramante, al suo interno ospita anche una sala decorata su tutte le pareti, soffitto compreso, con la coloratissima opera “Love Trap!” degli artisti Fallen Fruit. La sala si chiama “stanza delle Sibille” per via di una finistrella che affaccia proprio sull’opera affrescata di Raffaello, “Sibille e Angeli”, situata nell’adiacente Chiesa di Santa Maria della Pace.
Al tramonto decidiamo di attraversare il ponte più scenografico della città, con tutte le statue che, a destra e a sinistra, accompagnano lo sguardo di chi raggiunge Castel Sant’Angelo. Sono trascorsi quasi duemila anni dalla costruzione nel 123 d.C. del mausoleo funebre fatto erigere dall’imperatore Publio Elio Traiano Adriano, per sè e per la sua famiglia.
Durante questi diciannove secoli di storia questo monumento romano ha subito molte modifiche strutturali e cambiamenti d’utilizzo, da sepolcro imperiale a castello fortificato, da palazzo rinascimentale, residenza papale, a oscura prigione, giungendo infine ai giorni nostri in veste di museo.
Il nome di Castellum Sancti Angeli fu dato al monumento nel IX secolo per la diffusione in quell’epoca della leggendaria apparizione avvenuta nel VI secolo, dell’Arcangelo Michele che rifoderò la sua spada fiammeggiante mentre era in corso una processione religiosa di tre giorni, per chiedere la fine di un’epidemia di peste che devastava la città. Venne anche collocata sulla sommità del castello una statua in legno dell’Arcangelo Michele, che nei secoli è stata sostituita da altri esemplari.
E’ già sera e i nostri bagagli sono pronti per il treno delle 17 del giorno dopo. Avevamo ancora tempo da dedicarci. Così abbiamo deciso la mattina seguente di andare a Villa Borghese, un parco nel cuore di Roma che nasce nel 1600 come villa di proprietà della famiglia Borghese per poi allargatasi nel tempo con nuovi possedimenti. Nel 1901 venne acquistata dallo Stato Italiano e due anni dopo ceduta al Comune di Roma. Siamo arrivate al laghetto, dove sorge un piccolo tempio dedicato ad Esculapio, siamo saliti, su una barchetta a remi e ci siamo immersi tra cigni, papere e simpaticissime tartarughe, in un turbineo di risate.
Da non perdere il panorama offerto dalla Terrazza del Pincio, che si affaccia direttamente su Piazza del Popolo.
Un viaggio di tre giorni che, con questa scrittura e questi scatti, si è già trasformato in uno splendido ricordo.
Il nostro appartamento si trovava nel quartiere Rione Monti, una posizione davvero strategica e molto tranquilla, a pochi passi dal Colosseo, che con la sua imponente struttura e l’aurea mitica si staglia limpido all’orizzonte.
Abbiamo acquistato i biglietti attraverso una piattaforma specializzata, poiché comprarli direttamente dal sito del parco è stata un impresa pressoché impossibile, anche settimane prima della partenza.
Il Colosseo, originariamente conosciuto come Anfiteatro Flavio, è un monumento iconico di Roma, costruito nel I secolo d.C., durante il governo degli imperatori della dinastia Flavia e poteva ospitare fino a 80.000 spettatori. Era utilizzato per una varietà di eventi pubblici, tra cui giochi gladiatori, battaglie navali simulate, cacce di animali selvatici e rappresentazioni teatrali.
La mattina era dedicata alle “venationes”, ossia la battaglia e la caccia di animali selvatici. Conclusa la caccia, e rimosse le carcasse, l’anfiteatro era pronto per le esecuzioni, gare di atletica e spettacoli comici. Al tramonto arrivava il momento più atteso della giornata, quello dei combattimenti tra gladiatori, che si sfidavano fino alla morte o alla resa di uno dei due.
Fa strano pensare che in questa arena gladiatori e prigionieri si affrontavano in combattimenti all’ultimo sangue per dare spettacolo all’imperatore.
Usciti dal Colosseo siamo entrati nell’area dei Fori Imperiali, un vero labirinto tra resti dei fori costruiti da Cesare, Augusto, Nerva e Traiano.
Fu il brillante intelletto di Cesarea partorire la geniale idea di erigere il primo sito e nel 46 a.C. iniziarono i lavori.
Nel Medioevoi fori subirono un lento ma inesorabile processo di demolizione e molte perle del complesso archeologico sparirono, per lasciare posto ai primitivi complessi urbanidi case popolari e edifici religiosi. Per fortuna negli anni 30, prese il via il progetto finalizzato a restituire al mondo questo splendido museo a cielo aperto.
Dopo un piccolo spuntino ci siamo avviati alPantheon. Costruito nel 27 a.C. da Agrippa e riedificato da Adriano (110-125). Inizialmente era luogo di culto pagano, per divenire poi una chiesa cristiana e mausoleo di uomini illustri (i re d’Italia Vittorio Emanuele II e Umberto I).
La cupola del Pantheon è un vero gioiello di tecnologia che ha retto a 2000 anni di terremoti. Venne costruita seguendo una tecnica d’avanguardia che usava materiali sempre più leggeri mentre ci si spostava verso l’alto. Al culmine c’è una grande apertura detta ‘oculus’, l’occhio dal quale penetra l’unica fonte di luce che ha consentito gli studi di astronomia. Si dice che nel Pantheon non piova mai. In realtà l’apertura crea un “effetto camino” cioè una corrente d’aria ascensionale che porta alla frantumazione delle gocce d’acqua. Così, anche quando la pioggia fuori è battente, la sensazione è che all’interno piova meno. Centralmente, sul pavimento, ci sono poi fori di drenaggio, che impediscono il formarsi di pozzanghere.
Proseguiamo verso la bellissima fontana di Trevi e ci fermiamo per le foto, non dimenticando di effettuare il rituale lancio della monetina. La Fontana di Trevi è un capolavoro barocco di marmo bianco che contrasta con il turchese dell’acqua della vasca. Raffigura il dio marino Oceano su un carro trainato da cavalli guidati da tritoni. E’ una delle location più amate e conosciute di Roma, sempre particolarmente affollata.
Dalla Fontana di Trevi raggiungiamo Piazza di Spagna, la scalinata brulica di gente.
Prima di partire ho l’abitudine di stilare una lista di luoghi particolari da vedere e nell’elenco avevo inserito l’ospedale delle bambole, in via Roma.
Avevo letto che trattasi un’officina storica che produce e ripara bambole, dal 1939. Avevamo immaginato un luogo di pura poesia, con tantissimi occhi di bambole di tutti i colori, ma anche braccia e gambe, i cosidetti pezzi di ricambio. Immaginate la nostra delusione nel vedere un restauratore poco incline, in quel momento, a spiegare perchè non ci fosse un reparto ospedaliero di bambole.
Ma non è stata questa la nostra meta finale.
Eravamo desiderosi di visitare la Basilica di San Pietro. Ed eccoci, dopo quasi 30 minuti a piedi, immersi nella omonima piazza, come piccole formichine. Attorno a noi i due colonnati semicircolari che conducono verso la Basilica posta al centro. La coda per entrare nella Basilica era abbastanza scorrevole e mancava veramente poco alla chiusura dei tornelli.
Superati i dovuti controlli, abbiamo varcato questo scrigno, dove sono conservate opere d’arte dal valore impareggiabile come la Pietà di Michelangelo, la Cupola di Michelangelo e, lungo la navata centrale, ilBaldacchino di Bernini. La Basilica di San Pietro è incantevole, immensa e affascinante allo stesso tempo.
Termina così il diario di viaggio del nostro secondo giorno in Roma. Stanchi, affamati e con tanta voglia di riposare, decidiamo di risparmiare le ultime forze, cenando a casa dopo aver acquistato tutto il necessario presso il mercato Rione Monti.
La mia app “contapassi”, a fine serata segnava 14 km, 22.421 passi.
Come ogni anno ci siamo regalati alcuni giorni da vivere insieme e vi assicuro che non è semplice quando qualcuno vive all’estero e magari preferisce tornare a casa per riposare. Ma credo che poi tutto venga ricompensato dal viaggio sentimentale che viviamo.
Abbiamo deciso di tornare a Roma dopo quasi 15 anni, con occhi diversi per noi adulti, con una luce tutta nuova per Nicole e Giada che non sono mai state nella città eterea.
Siamo arrivati comodamente con il treno, ore 13 del 26 dicembre, alla Stazione Termini e abbiamo raggiunto l’appartamento dove il nostro premuroso host Alessandro ci stava attendendo. Abbiamo sistemato i bagagli e ci siamo diretti, senza esitare, verso Trastevere.
Ogni città ha al suo interno un vero e proprio scrigno, basta allontanarsi dalle solite rotte turistiche e perdersi tra i vicoli.
Con largo anticipo abbiamo prenotato una visita in uno dei luoghi più segreti e nascosti della città: la farmacia più antica, la spezieria di Santa Maria della Scala.
Eravamo in anticipo e nell’attesa siamo entrati nella Chiesa omonima che si trova accanto. Costruita nel periodo 1593-1610 per ospitare l’icona della Madonna della Scala che, nella tradizione, avrebbe miracolosamente guarito un bambino deforme dopo le preghiere della madre. L’edificio ospitava anche un’opera di Caravaggio, Morte della Vergine. Ma poiché il Caravaggio fu sospettato di aver utilizzato, come modella, una prostituta annegata nel Tevere, l’opera fu confinata altrove e sostituita da un’altra con titolo omonimo.
La farmacia si trova al primo piano del convento dei Carmelitani Scalzi, accanto alla Chiesa. Già mentre salivamo ci sentivamo avvolti da un’atmosfera magica. Dietro una porta maestosa si celava un passato fatto di composti-medicinali, un antico microscopio, vasi, bilance, erbe, mortai, un antico erbario e stampi per ricette. Ascoltavamo il frate, affascinati e avvolti dalle sue parole e da quella atmosfera di un lontano tempo passato.
La farmacia nacque nella prima metà del Seicento a cura dei Carmelitani, che, studiosi di chimica e ricercatori scientifici, si occupavano della coltivazione di piante e medicinali necessari alla loro salute e a quella di principi, cardinali e Papi. A fine Seicento, la Spezieria venne messa a disposizione di tutti, per curare il paese afflitto dalla peste.
I frati furono celebri inventori di due rimedi: l’acqua pestilenziale, ritenuta efficace contro la trasmissione e contagio della peste, e l’acqua di melissa, definita come calmante per disturbi isterici. I segreti di questi preparati, e non solo, sono custoditi in un rarissimo e preziosissimo erbario.
Il primo ambiente in cui si entra è la stanza delle vendite. Qui si resta incantati dagli alti scaffali lignei e, soprattutto, da un grande vaso, quello della teriarca, un farmaco composto di 57 sostanze diverse fra cui carne di vipera femmina non gravida, considerata un infallibile antidoto contro i veleni.
Nella sala a fianco, ci sono ancora le scatole in legno di sandalo, che custodivano le sostanze per la produzione dei medicamenti. Sulle ante degli armadi sono dipinti alcuni medici famosi dell’antichità tra cui Ippocrate, Galeno e Avicenna, Mitridate e Andromaco.
Segue un piccolo laboratorio dove venivano preparati i distillati medicamentosi e liquori ed una piccola stanzetta in cui si ritrova ancora una pilloliera che trasformava gli impasti in pillole. La spezieria della Scala è inattiva dal 1954, ma fino ad allora ha distribuito medicinali a prezzi moderati tenendo aperto al pubblico un ambulatorio gratuito. Oggi resta l‘alchimia del passato a guidare il visitatore, insieme ai suoi segreti.
Altra tappa fondamentale se sei a Trastevere è una passeggiata al giardino botanico, che nel periodo natalizio ti regala un ambiente fiabesco, tra installazioni luminose, giochi di luce e proiezioni.
Il percorso si snoda lungo un sentiero facilmente percorribile, dove le installazioni catturano gli sguardi dei bimbi e degli adulti, tutti con il naso all’insù alla ricerca di elementi fantastici. Ed è così che Giada vede delle fatine scendere lungo i raggi di luce proiettati nella Foresta di Bamboo.
Si prosegue tra origami che si colorano a suon di musica in un gioco di luce e controluce e l’installazione Carillon di Luci, interattiva, giocosa e divertente.
Trastevere è uno dei quartieri storici di Roma, portatore e custode dell’anima di una grande città. Camminare fra quei palazzi storici, alzare gli occhi al cielo e visitare almeno qualcuna delle numerose chiese è una tappa obbligatoria se si visita la capitale.
Un’atmosfera a volte intima, a volte frettolosa.
Per cena siamo rimasti in zona, in una trattoria, degustando un’ottima selezione di carni, in un’atmosfera calda e familiare.
A conclusione del pasto un tiramisù con tanto di candelina da spegnere. Auguri Mamma! Credo che sarà un compleanno da ricordare.
Situata a pochi chilometri dal confine con la Basilicata, Ginosa è un borgo di particolare bellezza, che sin ad oggi non avevamo preso in considerazione.
Si tratta di un borgo incantato, sospeso nel tempo, dal fascino antico e magico. Con le sue “case-grotta” e le chiese rupestri scavate nella roccia – risalenti a migliaia di anni fa – rappresenta uno degli spettacoli naturali italiani più sorprendenti, insieme alla “sua gemella” Matera.
La guida ci attendeva in Piazza dell’Orologio, un edificio del XIX secolo che ha sostituito il Palazzo del Sedile, sede del Comune, del carcere e dell’ufficio delle tasse. I palazzi che si ammirano ancora oggi, sono costruzioni maestose, eleganti ed armoniose, arricchite da archi, statue e fregi. Nel 1819 le famiglie nobili che abitavano la Piazza furono autorizzate a demolire il Sedile, a causa dei lamenti, delle imprecazioni del reo e degli schiamazzi del popolo che si diffondevano a tutte le ore, determinando una situazione snervante, degradante e malsana, ed a costruire a loro spese la piramide per collocarvi il nuovo edificio.
Il cuore della visita a Ginosa è la sua gravina, che si estende per circa 10 km tutt’intorno al centro storico, come un ferro di cavallo. La gravina è un canyon scavato dall’acqua sulle cui pendici, per secoli, gli uomini hanno scavato case grotta e le hanno abitate. Nella Gravina di Ginosa troviamo ben due villaggi rupestri: Rivolta (il più antico, con resti presitorici) e Casale.
Fra i due rioni, su uno sperone di roccia, si erge il Palazzo Baronale che sembra per buona parte quasi sospeso nel vuoto. Fu costruito per esigenze difensive nell’XI secolo, poi in età rinascimentale è diventato un palazzo signorile, purtroppo non è visitabile.
Nel villaggio di Rivolta le grotte sono disposte su 5 livelli collegati tra loro: la fila di grotte sottostante ospita le cisterne, i cortili e gli orti delle grotte soprastanti, mentre i piani terrazzati sono divisi da muretti di pietre a secco e collegati da ripide stradine e scalinate. Le case-grotta sono visitabili e mostrano le tracce della vita che vi si trascorreva.
L’ingresso delle case è rivolto a Sud in modo da incamerare quanta più luce e calore durante l’inverno e si realizzavano con architettura di sottrazione: si scavava nella tenera calcarenite e si utilizzava il materiale ottenuto per creare gli ingressi e le porte.
Quando entri ti chiedi come fosse vivere qui tanti anni fa, con gli animali in fondo alla stanza ed il camino all’entrata. Non c’erano le fognature, ma tutto era ben organizzato e tutto veniva riutilizzato come concime per i campi.
Attraverso il tratturo ci siamo dirette prima alla chiesetta di Santa Sofia, protetta da una delicatissima cancellata. La Chiesa conserva sul fondo ancora l’altare, sormontato da un dipinto della Crocifissione, ed i sedili di pietra destinati ai fedeli. Ci siamo poi dirette, attraverso un ripido sentiero all’isolata chiesetta rupestre di Santa Barbara, non visitabile a causa delle sue precarie cindizioni, ma al cui interno sono ancora visibili zone affrescate.
Ovunque eravamo avvolte dal profumo di rucola, mentuccia e timo.
Il rione Casale è un altro villaggio rupestre che si incontra scendendo nella conca del torrente, malinconico, abbandonato, ma allo stesso tempo potente. Qui le case-grotta si mescolano a case che uniscono una parte scavata nella grotta ad una costruita su un altro livello. Il villaggio porta i segni delle alluvioni avvenute nel 1857 e, recentemente, nel 2013 che hanno danneggiato le chiese rupestri dei Santi Medici e di San Domenico.
Giungiamo nel silenzio ai piedi della Chiesa Matrice, costruita in tufo locale. Si gode di un panorama incantato. Il signor Carmelo, nato 72 anni fa in una casa grotta, è il custode della Chiesa Matrice e ha aperto per noi le porte di un luogo che sembra sospeso nel tempo.
Ginosa è stata inaspettatamente suggestiva. Vanta un paesaggio tormentato e grandioso, di grande impatto visivo come a Matera, ma al momento meno manipolato dalle esigenze del turismo di massa. La consigliamo vivamente.
La nostra visita è terminata all’interno dell’info Point di @visitginosa, un’associazione turistica e culturale, nata con l’intento di promuovere il territorio, le eccellenze culinarie e artigianali. Organizzano molte esperienze e noi abbiamo già trovato alcune interessanti che di certo proveremo e vi racconteremo.
Non potevamo andar via da Ginosa senza cenare in un tipico ristorante: salumi e formaggi dal profumo inconfondibile, pasta con cicerchie e pancetta, agnello, zampini e “gnummerjìdd”. Per il dolce non c’era più spazio 🙂
La loro storia inizia tra la fine del XIX e il primo trentennio del XX secolo. A quei tempi Parigi era ancora una città dall’urbanistica spontanea e confusa, stradine di ogni tipo si intersecavano tra loro, sfociando a volte in piccole piazze, a volte finevano dritte sugli argini della Senna. Nessuna pavimentazione, polvere e fango dappertutto. I locali al piano terra erano adibiti a stalle per cavalli o a depositi, non curati e maleodoranti. Così a qualcuno venne in mente di coprire la stradina di propria pertinenza con leggere strutture metalliche e lastre di vetro all’altezza dei tetti, per far passare la luce del giorno e per bloccare la pioggia. Et voilà il passage era fatto. In quella strada ora si poteva passeggiare anche in giornate di pioggia e vento, senza il rischio di bagnarsi e di infangarsi le scarpe ed in breve nacquero botteghe, negozi, cafés e piccoli bistrots.
Il successo fu travolgente e presto la moda dei passages coperti si diffuse in tutto il centro cittadino. A favorire l’operazione fu soprattutto la rivoluzione urbanistica sotto Napoleone III che stravolse completamente l’assetto della città. Demolite le costruzioni fatiscenti, risanate le zone centrali, preservate soltanto strade e case di una certa fattura, i passages acquistarono una loro specifica fisionomia, diventando luoghi di ritrovo ricercati ed eleganti. Al massimo del loro splendore, a Parigi se ne contavano circa 150, con negozi che offrivano mercanzie di vario tipo, come le preziose stoffe indiane importate, le ricercate porcellane e cristallerie delle migliori manifatture d’Europa.
Entrare in uno dei passages couverts di Parigi equivale a fermare il tempo, lontano dal clamore della città, in un’atmosfera dal sapore nostalgico.
Vi raccontiamo alcuni dei passage che abbiamo incontrato.
Passage du Grand Cerf. Un passage un po’ diverso, forse meno luccicante o fiabesco rispetto ad altri, ma ugualmente bello. La prima cosa che vi colpirà sarà l’altezza del soffitto vetrato, da cui la luce naturale scende copiosa ad inondare la galleria. Fino al 1825 al suo posto sorgeva il terminal delle diligenze, un’efficace rete di trasporto passeggeri e merci in attività fin dai tempi del re Sole, e la “maison du roulage du Grand Cerf”. Demolito il terminal, si cominciò a costruire la galleria che confermò il nome della maison. Le insegne sono tutte molto originali. Ci sono negozi di antiquariato e modernariato, un orafo che crea deliziosi gioielli, lampade sciccose e gomitoli di lana declinati in mille colori, tessuti ed incensi.
PassageJouffroy. Risale ai tempi di Luigi-Filippo, si caratterizza per le numerose insegne e decorazioni d’epoca. E’ il primo passaggio parigino interamente costruito in metallo e vetro, che lascia al legno solo gli elementi decorativi. Protagoniste sono le antiche botteghe di francobolli e monete, le decorazioni d’epoca e le insegne eclettiche.
Passage des Panoramas. Questo passaggio coperto è uno dei più antichi di Parigi e d’Europa, edificato nel 1799. Venne chiamato così perché all’interno si potevano ammirare delle pitture a 360 gradi dipinte sui muri, denominate i “panorama”.
Ogni bottega è unica nel suo genere, da “Maison Gilbert”, il negozio di giocattoli orgogliosamente fondato nel 1848, alle librerie storiche che espongono con fierezza le prime edizioni degli autori più celebri della letteratura francese.
Ma la bottega che più mi ha colpita è “La maison du Roy”, chiamata anche “la boutique preferita di Maria Antonietta”: gioielli lussuosi, arredi eccentrici e creazioni pompose affollano questa particolare boutique.
All’interno del Passage Jouffroy si trova anche un luogo inedito, l’Hotel Chopin (tipicamente parigino) e il museo delle cere, Musee Grevin.
Nei Passage il silenzio avvolge tutto e tutti, così rallentiamo il passo e godiamo di questo rallentatore. Si ha l’impressione di essere in una sorta di giardino d’inverno, protetti dal freddo e dall’incessante fermento che agita Parigi.