La famiglia a Cipro.

Oggi voglio raccontarvi del nostro viaggio a Cipro.

Sono passati alcuni mesi, ma parte del nostro cuore è ora lì.

L’isola di Cipro, pur trovandosi in medio oriente è un’isola europea, contesa tra due Stati, Grecia e Turchia. La parte sud è greca, la Repubblica di Cipro, al nord invece c’è il territorio occupato, dalla metà degli anni ’70, dalla Turchia, uno stato non riconosciuto dalla comunità internazionale. Seppur divisa, l’isola vive pacificamente con due culture, religioni, lingue, monete diverse e sa donare veramente tanto.

La divisione è ben visibile nella capitale Nicosia, la cosiddetta “linea verde”, che si può facilmente attraversare a piedi, passando dal check point, muniti di passaporto.

La parte greca di Nicosia è abbastanza moderna, il centro storico all’interno delle mura è un dedalo di vie che convergono in via Lidras, una lunga via pedonale piena di negozi e locali che porta al check point.

Prima di passare nella parte turca visitiamo il Museo Municipale Leventis dove sono esposti reperti archeologici, costumi, fotografie, ceramiche, mappe e dipinti che raccontano oltre 5.000 anni di storia di Nicosia. Il Museo ha una galleria dedicata a Caterina Cornaro, ultima regina di Cipro.

Tra difficoltà, insidie e congiure, Caterina governò Cipro, appena diciannovenne, per quindici anni finché, alla fine di febbraio 1489, non consegnò il regno, ereditato dal suo defunto consorte, nelle mani della Serenissima.

Il mito immortale di Caterina Cornaro è giunto fino ai giorni nostri anche grazie al corteo acqueo che ogni anno apre la Regata Storica di Venezia.

Oltrepassiamo il confine senza problemi, ma non nego di aver sentito un pò di tensione, quando mio figlio mi ha consigliato di usare il telefono in maniera discreta, poichè trattasi di una zona militarizzata, con alcune restizioni vigenti.

Tutto si placa oltrepassando la zona cuscinetto: qui le strade profumano di carne alla griglia, la gente ti avvolge con il suo vociare, il colore predominante è il giallo ocra degli edifici e il rosa acceso delle enormi bouganville. Subiamo il fascino dei mercati, delle bancarelle, piene di stoffe colorate.

Lasciamo questa parte di Nicosia troppo presto, ma con la promessa di ritornare quanto prima.

Passeggiando per la parte greca di Nicosia vi imbatterete nella bellissima chiesa di Panaghia Faneromeni, affacciata sull’omonima piazza, animata dai vari locali all’aperto. Allìinterno si possono osservare icone dorate e tanto bianco, testimonianza di uno stile misto tra chiesa romanica e neoclassica.

Ci troviamo a Cipro nella settimana pasquale, tra tradizioni secolari, un forte senso di comunità e celebrazioni che fondono spiritualità e gioia. Le Chiese sono addobbate magnificamente.

Lasciamo il centro cittadino e percorriamo le caratteristiche mura veneziane: una cinta circolare che racchiude sia la parte settentrionale che quella meridionale della città vecchia, costruita per tenere lontani dalla città gli invasori ottomani.  Le mura ospitano il Monumento alla Libertà (Monumento di Eleftheria), eretto nel 1973, che commemora la liberazione dal dominio britannico. Nella cinta muraria si aprivano tre porte ci accesso alla città, la porta più orientale e la meglio conservata è quella di Famagosta.

Cipro è una terra bellissima, di cui parlerò ancora. Ma è tempo di rientrare, Niko e Andry ci attendono a casa 🏡❤️.

Sulle sponde del Lao

Abbiamo trascorso una piacevole domenica autunnale nella Valle del Lao, alla scoperta di Laino Borgo e Papasidero, due Comuni del Parco Nazionale del Pollino, immersi nella valle.

Laino Borgo è incastonato come una gemma e si snoda in un dedalo di viuzze, affrescate da una serie di murales che raccontano squarci di vita vissuta, oggetti, prodotti tipici e simboli del Paese, in una sorta di book fotografico a cielo aperto.

Il territorio è attraversato dal fiume Lao che genera un canyon profondo di circa 200 metri, rendendo il paese uno dei punti di riferimento più importanti per il rafting in Calabria. Noi abbiamo intrapreso un trekking semplice, quasi sempre costeggiando il fiume, all’inseguimento degli avventurieri del rafting, prima che questi scomparissero all’interno della gola, ingoiati dalla potenza dell’acqua. Siamo rimasti seduti sulle rocce ad ammirare l’impetuosa corrente, ascoltando il suono fragoroso dell’acqua sulle rocce, che da millenni scolpisce questi luoghi.

Fino al XVI secolo Laino Borgo era annesso a Laino Castello e formavano un solo Comune denominato semplicemente “Laino”. In una sorte abbastanza tormentata i due borghi sono stati unificati e divisi più volte a seconda delle situazioni politiche che si avvicendavano. Un’evoluzione storica che è terminata nel dopoguerra, precisamente a ottobre del 1947, con la loro scissione definitiva. 

La parte più caratteristica di Laino Castello è il suo centro storico arroccato sul colle S. Teodoro sulla cui sommità spicca il Castello Feudale: “CastrumLayni ” costruito dai Longobardi come luogo di difesa contro il nemico bizantino, divenuto, successivamente, il capoluogo di uno dei sette Gastaldati più importanti dell’Italia Meridionale. Posto su uno sperone di roccia sul punto più alto del colle, di cui oggi esistono i ruderi con bastioni speronati a torretta, adibito a cimitero comunale, gode di uno scenario incantevole e domina tutta la valle al fondo della quale scorre il fiume Lao. Qui la natura regna incontaminata.

Lasciamo Laino Castello e procediamo verso Papasidero. Raggiungiamo, dopo centinaia di curve, la Grotta del Romito, localizzata all’interno di uno stretto canyon che offriva protezione e riparo. Qui, un giorno un pastore, trova incisa su una pietra, la raffigurazione di un Uro (Bos primegenius), il più importante capolavoro figurativo che l’attività artistica del Paleolitico ha lasciato in Italia Meridionale

Correva l’anno 1961 e la notizia del toro sulla roccia si sparge velocemente, Paolo Graziosi, professore di archeologia e paleontologia all’Università di Firenze, organizza subito una missione studio. Il toro viene completamente portato alla luce e appare nella sua interezza: l’artista paleolitico aveva raffigurato con grande naturalismo il muso con le corna, l’arco del dorso, la coda e le zampe con gli zoccoli. Il tutto inciso a bulino.

L’importanza di Papasidero a livello europeo è legata alla presenza di evidenze paleolitiche, arte rupestre, sepolture (9 individui in tutto), reperti che coprono un arco temporale compreso tra 23.000 3 10.000 anni fa, ed hanno consentito la ricostruzione delle abitudini alimentari, della vita sociale e dell’ambiente dell’Homo Sapiens.

Ultima tappa di questo bel viaggio in Calabria, la chiesa di Santa Maria di Costantinopoli a Papasidero che sebbene sia stata ricostruita nel XVII secolo, testimonia ancora la presenza dei monaci bizantini, detti basiliani per distinguerli dai monaci di osservanza benedettina.

La sua architettura è una fusione armoniosa di storia e sacralità che si staglia maestosa e si fonde con l’ambiente circostante, abbracciato dal dolce riecheggio delle limpide acque del fiume Lao.

La Calabria riesce a placare la mia ricerca di bellezza nella natura e nei borghi.

Calabria da amare: San Nicola Arcella, Praia a mare, Maratea.

In Calabria ci sono tanti piccoli e deliziosi paesi che meritano di essere visitati, proprio come le gemme che si inseriscono con eleganza nella suggestiva Riviera dei Cevri. Il tempo a disposizione non è stato molto, ma ci ha ugualmente permesso di scoprire parte di questo territorio, tra panorami mozzafiato, acque cristalline e un’atmosfera tranquilla.

Abbiamo iniziato la giornata a San Nicola Arcella con la visita alla spiaggia dell’Arco Magno. Ci sono diversi modi per raggiungerla e alcune regole da rispettare: dal 2023 è stato stabilito un biglietto d’ingresso e un tempo massimo di permanenza, individuato in 20 minuti. Questa misura è stata adottata per preservare il luogo, evitando il sovraffollamento durante la stagione estiva.

La prima modalità per arrivare all’arco si snoda attraverso un percorso a piedi, di poco più di 10 minuti. Si parte con una ripida scalinata, scolpita nella roccia, per ammirare la bellissima baia di San Nicola Arcella e il mare dalle mille sfumature di blu.  In lontananza, spicca la torre Crawford e, sul promontorio, si erge il maestoso palazzo dei Principi Lanza.

Arrivati in cima, è imprescindibile fermarsi per ammirare il panorama che abbraccia il Golfo di Policastro, con l’isola Dino che si staglia maestosa di fronte. Si prosegue avvolti dalla macchia mediterranea sino a quando Inaspettatamente la costa si apre con un grande arco roccioso e il mare si stringe creando una baia, dal colore intenso.

L’acqua è limpidissima e in alcuni tratti veramente fredda, per la presenza di una sorgente di acqua dolce nella grotta situata a pochi passi dalla riva. Restiamo per un po’ distesi sulla spiaggia, a godere della tranquillità che questo posto riesce a trasmettere.

E’ arrivato il momento di visitare questo luogo anche da un’altra prospettiva, così prenotiamo una gita in barca. Da qui in avanti la costa di San Nicola si presenta particolarissima per un intervallarsi di rocce a strapiombo e acque che vanno dal blu al turchese.

La barca si avvicina all’arco, sin dove è consentito. Anche dal mare la sua bellezza non cambia.

Riprendiamo la rotta verso l’isola di Dino, la più grande delle due isole calabresi, conosciuta per le sue coste rocciose formatesi per stratificazioni laviche ma soprattutto per la “Grotta Azzurra. La particolarità della grotta nelle ore diurne è il suo colore azzurro acceso che si riflette su tutte le rocce all’interno, regalando uno spettacolo incredibile. La sosta per il bagno non poteva mancare. Il giro prosegue costeggiando il “frontone” dell’isola, per arrivare a far visita al santuario della “Madonna dei pescatori” sul lato nordest, posta qui a protezione dei pescatori e di chi va in mare. Di qui in avanti la costa si alza maestosa con pareti a strapiombo color arancio che si riflettono nel blu indaco dell’acqua. L’isola costituisce una sorta di protezione della costa, cingendola, con un mare calmo dalle correnti esterne.

Verso la metá degli anni ’80 l’isola venne venduta a Gianni Agnelli, oggi sull’isola vengono organizzate escursioni di trekking.

L’antico paese di San Nicola Arcella appare in alto, nascosto dietro il costone di roccia, protetto dai nemici che arrivavano dal mare. Ci avvicianiamo all’antica “Torre Crowford” primo avamposto di difesa e costruita per l’avvistamento dei Saraceni, divenuta nel 1800 dimora estiva dello scrittore Francis Marion Crowford, colui che ha ideato il genere horror.

Prossima tappa di questa giornata il Cristo Redentore di Maratea. La strada che da Sapri porta a Maratea si snoda come un anaconda. Non sono alla guida, ma non riesco comunque a godermi lo spettacolo che mi dona il mare, a causa dei miei problemi di vertigine.

Nonostante ci sia sulla cima un parcheggio, decidiamo di lasciare la macchina lungo la strada, percorrendo un tratto del cammino di San Biagio, il santo che dà il nome al monte. La leggenda vuole che nel 732 d.C. una nave, che trasportava le reliquie di San Biagio fu costretta ad attraccare nell’isolotto di Santojanni a causa di una tempesta. Una volta passata la burrasca, non ci fu modo però di riprendere il largo e i devoti elaborarono il fatto come un segnale di dover custodire proprio in quel luogo i resti del santo.

Ci limitiamo alle ultime tappe ma è ugualmente suggestivo, con panorami incantevoli, sospesi nell’aria.

Nella fase finale della salita percorriamo i ruderi della città antica medioevale, distrutta, dopo un lungo assedio, dall’esercito napoleonico nel 1806. Il borgo si avvale del nome “castello”, per le fortificazioni, torri e bastioni da cui era caratterizzato, mentre la Maratea che conosciamo si avvale del nome di “borgo”.

Continuiamo l’ascesa e così d’improvviso, ad un’altitudine di 620 metri, appare imponente con il suo abbraccio la Statua del Cristo Redentore, di un bianco accecante,in netto contrasto con l’azzurro del cielo e del mare.

La storia della statua è legata al Conte Stefano Rivetti di Val Cervo, venuto da Biella nel 1953, e all’artista fiorentino Bruno Innocenti. Si tratta di un’opera di cemento armato rivestito da un impasto di cemento bianco e marmo di Carrara, alta 21 metri. Tali dimensioni la rendono, nel genere, la più grande d’Europa.

Il Cristo non rivolto verso il mare ma verso l’interno, in un interminabile abbraccio alla Lucania.

Rocca Imperiale

Oggi vi raccontiamo Rocca Imperiale, con i suoi vicoli tortuosi che puntano al maestoso castello, in uno scenario incantevole, tra cielo e terra.

Il Castello fu voluto da Federico II, ed era uno dei luoghi di sosta preferiti del sovrano durante i suoi frequenti viaggi nel sud Italia, con un sistema difensivo, tra mura di cinta, artiglieria e macchine da getto, da resistere perfino all’invasione dei turchi, nel 1644.

La montagna dove sorge Rocca Imperiale si trovava sulla via più diretta tra la Sicilia e il cuore dei possedimenti svevi (Basilicata e Puglia). Tra l’altro dominava la costa ionica e consentiva di avvistare da lontano navi nemiche.

Dopo la morte di Federico II il castello divenne proprietà dei Cavalieri Templari, quindi passò di mano in mano tra diverse famiglie feudali.  Tra il XIX e il XX secolo seguirono anni di abbandono e degrado finché il castello non venne acquistato dalla famiglia Cappa (1903) che lo cedette al Comune di Rocca Imperiale nel 1989.

Al Castello si accede da un ponte che introduce nella Cittadella Militare, sovrastata da mura merlate, le stesse che poi circondano il fossato e il mastio centrale del maniero. Un secondo ponte più grande introduce nel castello vero e proprio, protetto da ben quattro torri.

l Castello presenta una pianta quadrangolare ed è delimitato da uno sperone roccioso. È dotato di torri: la Torre Polveriera, la Torre Frangivento ed il Ma-stio. Il tour si snoda tra le cucine, che conservano ancora le antiche cisterne e i fornelli, la Piazza d’Armi, i saloni di rappresentanza, le scuderie e le carceri.

Infine si raggiunge la terrazza panoramica dalla quale si staglia una vista a perdita d’occhio sul centro storico e sul mare.

Da quassù la vista si spinge fino al Golfo di Taranto!

Dopo la entusiasmante visita al castello, siamo scesi verso il borgo, che ha mantenuto quasi intatta la struttura urbana medievale – un intrico di vie, vicoli, scalinate e cortili – seppur nel 1644 fu devastata da una armata di 4000 saraceni, che non riuscì a prendere la fortezza ma distrusse parte dell’abitato originario.

La nostra giornata è terminata con un picnic tra il profumo inbriante dei limomi.

Come per varie zone della Calabria, Rocca Imperiale è avvolta in un delicato profumo di agrumi. Siamo in un autentico angolo di paradiso, circondati dalle limonaie secolari che da queste parti colorano il paesaggio di giallo acceso e inondano l’aria di profumi.

La varietà di limoni è assolutamente unica nel suo genere: il “limone rifiorente”,così chiamato per la fioritura multipla tutto l’anno (ben 4 fioriture con relativa produzione di frutti). Un agrume calabrese 100%, che in virtù del sapore gradevole, del profumo inebriante e delle proprietà organolettiche che lo rendono appetibile in cucina, pasticceria, distilleria e cosmesi, si impone come una delle eccellenze dell’agroalimentare in Calabria.

Un’altra bellissima domenica, dal ritmo lento ❤️

Calabria on the road: 2° parte.

ll rientro in Puglia si colora ulteriormente raggiungendo Borgo Croce, una frazione di Fiumara (Reggio di Calabria), risorto grazie alla street art e all’amore dei paesani.

Il cambiamento parte dall’idea di Maria Grazia Chirico, valorizzare il borgo con i murales, in ricordo della madre appena scomparsa. L’idea piace ai concittadini che, nel 2020, intraprendono un lavoro volto a ridisegnare la bellezza sopita del borgo.

Le pareti delle abitazioni, non solo diventano tele per i murales ma anche pergamene su cui annotare e riprodurre antichi proverbi.

E’ domenica e le vie sono abitate da un silenzio surreale. Girovagando per il borgo, incontriamo la signora che realizza saponette con l’olio d’oliva. Racconta con nostalgia, di un tempo che fu, di un paese autosufficiente con l’allevamento e la macellazione del bestiame.

Oggi molti di loro sono anziani, privi di auto, ed attendono l’arrivo settimanale dei generi alimentari che prenotano nei paesi a valle. Ma nonostante le difficoltà hanno un compito comune: mantenere viva l’eredità di Borgo Croce.

Da borgo Croce ci spostiamo su Monte Sant’Elia di Palmi, un balcone, da paura, sospeso tra cielo e mare.

Un’antica leggenda calabro-sicula racconta della lotta vittoriosa di Sant’Elia col diavolo. Si narra che il Santo ogni giorno cercava di portare avanti la costruzione del Convento, ma il diavolo di notte diroccava le mura. Uno giorno il santo lo scaraventò, nel mare sottostante, su una roccia, dove sono ancora visibili le sue impronte. Altri aggiungono, che il demonio, vedendosi vinto, tornò a tentarlo, promettendogli che non l’avrebbe disturbato, purché gli avesse permesso di avere un suo rifugio, nel punto in cui il Santo (creduto debole eremita) avrebbe lanciato il bastone, a cui si appoggiava. Ma Sant’Elia miracolosamente lanciò il proprio bastone nell’estremo limite del mare visibile, cioè al posto di Stromboli. Il demonio fu costretto ad allocarsi in quel punto, eruttando ripetutamente lave, fumo, e scuotendo tutta questa regione, con frequenti terremoti e sinistri boati.

Ultima meta di questo viaggio on the road, la città simbolo della Calabria nel mondo, meta già nel settecento di aristocratici europei, nel loro Grand Tour: Tropea.

La leggenda vuole che il fondatore sia stato Ercole quando, di ritorno dalle battaglie delle Colonne d’Ercole (attuale Gibilterra), si fermò sulle coste del Sud Italia, e su questa rupe depositò i suoi trofei in latino trophaeum, da qui il nome della città Tropea.

Per la sua caratteristica posizione di terrazzo sul mare, Tropea ebbe un ruolo importante, sia in epoca romana, sia in epoca bizantina; molti sono i resti lasciati dal bizantini, come la chiesa sul promontorio o le mura cittadine (chiamate appunto “mura di Belisario”).

Il centro storico di Tropea è in alto, a circa 70 metri sul mare, in un dedalo di vicoli, stradine, chiese, palazzi nobiliari, terrazzi panoramici e incredibili scorci sul blu del mare che all’improvviso si aprono passeggiando.

Il Santuario di Santa Maria dell’Isola, detto anche Isola Bella, è uno dei gioielli di Tropea e di tutta la costa, sia per la sua posizione, su di uno scoglio a strapiombo davanti alle Isole Eolie, sia perché è uno di luoghi di culto più importanti della zona, ricco di leggende. Un tempo isolato dalla terra ferma, l’isolotto divenne un rifugio per eremiti, ma in seguito, a causa del terremoto del 1783 e dell’onda anomala che ne conseguì, l’isola si unì all’arenile tropeano.

Si racconta che nel paesello giunse una statua lignea della Vergine dall’oriente. Il popolo scese al lido e le più alte cariche decisero di custodire la statua all’interno di una grotta naturale, presente nella rupe. La statua, purtroppo, risultava troppo grande rispetto alla grandezza della nicchia, così si decise di segare le gambe. Questa decisione ebbe conseguenze nefaste sia per il falegname che per coloro che avevano dato il consenso.

Le leggende raccontano anche di miracoli avvenuti su un masso posizionato a metà delle scale di accesso al santuario. All’interno della chiesa è molto sempice e custodisce la Sacra Famiglia, realizzata nel ‘700. Queste statue vengono calate a spalla su di un peschereccio ogni anno per la processione della Madonna Assunta del 15 agosto.

Al tramonto eravamo nel giardino del Santuario: il sole dolcemente calava nel tirreno e nitidamente si scorgevano le isole di Vulcano, Stromboli e perfino l’Etna.

La bellezza di Tropea è innegabile, ma dopo aver assaggiato la semplicità di alcuni borghi, ascoltato le storie di chi è rimasto o ha deciso di ritornare, Tropea mi è sembrata troppo convertita alla vacanza di lusso, con strade che brulicano di insegne di B&B e di ristoranti, anzichè di storia.

A parte questa nota, il viaggio in Calabria è stato meraviglioso. Questo lembo di terra è entrato a pieno titolo tra i luoghi del cuore, per la l’accoglienza, per la storia, per i sapori, per la bellezza e per i suoi tramonti che difficilmente potremo dimenticare.

Calabria on the road: 1° parte

Abbiamo capito sin da subito che l’auto è il mezzo migliore e più comodo per visitare la Calabria. Per cui siamo partiti di buon ora alla scoperta di questa lingua di terra e dei suoi luoghi così paradisiaci, ancora poco valorizzati.

In questo articolo ripercorreremo le prime tappe del nostro on the road:

  • Castello di San Fili
  • Pentadattilo
  • Reggio Calabria
  • Scilla

Il percorso sino alla provincia di Reggio Calabria meritava una piccola sosta e così ci siamo fermati al Castello di San Fili. Il palazzo sorge su un promontorio, come una sentinella che da secoli osserva il mutare del tempo. Costruito tra il 1710 e il 1720 dal capitano Giuseppe Lamberti, si incastona perfettamente tra il cielo ed il mare e le ampie finestre del piano nobile offrono incantevoli vedute, trasformando ogni sguardo in un dipinto.

Dal Castello ci siamo diretti a Pentadattilo (che ha un racconto tutto suo-https://rondinelleinviaggiofamily.blog/2025/02/01/pentedattilo-alla-ricerca-della-felicita/) e siamo scivolati verso Reggio Calabria per “conoscere” i Bronzi di Riace, esposti al Museo Archeologico Nazionale. Ritrovati in mare nel 1972 da un sub romano, i Bronzi raffigurano due uomini nudi, giovani e forti, risalgono probabilmente al V secolo a.C.

Le due opere sono state a lungo al centro di una sorta di giallo archeologico: forse affondarono con una nave oppure furono gettate in mare, nel tentativo di alleggerire il carico e scongiurare un naufragio. Quest’ultima sembra l’ipotesi più attendibile, dato che nel luogo del ritrovamento non c’era traccia dei resti dell’imbarcazione e neppure di altri oggetti. I Bronzi sono diventati le statue-simbolo, l’espressione del concetto di bellezza sviluppatosi in Grecia, quella maschile, che si identificava con l’armonia di un corpo muscoloso, capace di esprimere forza, vigore e salute.

Per iniziare la nostra passeggiata a Reggio Calabria, dopo il museo, ci siamo recati al Lungomare Falcomatà, definito anche “il chilometro più bello d’Italia”. La bellezza di questo kilometro è leggendaria. La vista che qui si può ammirare sullo stretto di Messina, aulla Sicilia e sull’Etna lascia a bocca aperta. Lungo questo scorcio, che i reggini definiscono “le tre marine”, c’è la possibiltà di ammirare edifici, monumenti, piazzette, sculture e scavi archeologici, per conoscere un pò meglio la città. La passeggiata nella storia è resa più gradevole dal gelato di Cesare, una delle migliori gelaterie d’Italia, un famoso chioschetto verde situato qui da oltre 100 anni.

Ad impreziosire questo lembo di terra ci sono tre spledide sculture umanoidi dell’artista Rabarama, installate nel 2007, che danno le spalle alla villa, stile neo-liberty, come altri edifici ristrutturati/ricostruiti dopo il terremoto del 1908.

Non mancano gli affacci sul mare, fra questi la spettacolare Arena dello Stretto, monumento storico della città, fortemente ispirata a quella dell’antica tradizione magnogreca. All’estremità la statua bronzea della dea Athena, a difesa della città. Con un’ampia gradinata semicircolare, l’Arena si presta a eventi, manifestazioni teatrali, musicali e mostre fotografiche, come quella di Letizia Battaglia, che abbiamo avuto la fortuna di ammirare. L’artista ha immortalato la Sicilia come mai nessuno aveva osato.

Proseguiamo il nostro tour per Scilla, che fa parte della cosidetta Costa Viola, per via del colore che le acque assumono in determinate ore del giorno. Il fatto che questo borgo sia legato alla mitologia greca, più precisamente dall’Odissea di Omero, lo rende ancora più suggestivo. Scilla era una ninfa che aveva rifiutato l’amore di Glauco, il Dio marino, metà pesce e metà uomo. Questo, si rivolse alla maga Circe, innamorata di lui, per far cadere Scilla tra le sue braccia, ma Circe, invidiosa, la trasformò in un mostro marino con sei teste di cane. Da quel momento Scilla andò a nascondersi in una grotta dello stretto divorando e terrorizzando i malcapitati naviganti, inclusi i compagni di Ulisse.

Grotte, mostri marini e sirene sono le leggende per spiegare i mulinellli, gorghi e vortici nelle acque dello stretto di messina che rendevano difficile la navigazione delle fragili imbarcazioni di un tempo.

Tutta la costa è sovrastata dall’imponente Castello dei Ruffo, che sorge sulla rocca e che prende il nome del famoso mostro omerico. Il Castello fu dimora del Conte Paolo Ruffo, il quale dominò il feudo di Scilla dal 1523, difendendo il borgo dal Pirata Barbarossa. Da questa rocca si apre un suggestivo panorama sulle Isole Eolie e sulla costa siciliana.

Dalle spiagge di Scilla seguendo un piccolo percorso a piedi è possibile raggiungere Chianalea di Scilla, il pittoresco borgo di pescatori, completamente avulso dalla realtà che lo circonda. Le case di Chianalea sono costruite direttamente sugli scogli e sono separate da strette viuzze che chiamano verso il mare. Man mano che scendi l profumo del mare diviene intenso e gli scorci poetici.

La pesca rimane uno dei tratti caratteristici del borgo, nonché la sua attività principale, in particolare quella del pesce spada che continua a farsi con i “luntri”, le tipiche imbarcazioni a remi, o con le più moderne “passarelle”, barche a motore con l’antenna d’avvistamento.

In questo quartiere abbiamo avuto la fortuna di ascoltare le storie di pescatori, che abitano queste case quasi sospese sull’acqua, intenti a sistemare le loro reti. Scilla, insieme a Palmi e Bagnara erano famose per la pesca del pesce spada, che veniva tramandato di padre in figlio. Il pesce spada rappresentava anche un vanto della cucina locale. Ora però sono in pochi a proseguire questa tradizione. I ragazzi hanno fatto altre scelte e la normativa, la burocrazia ed i costi non aiutano i pochi che sono rimasti.

Nonostante queste considerazioni non del tutto rosee dell’economia, Chianalea è un gioiello che merita di essere visto almeno una volta della vita. Davanti alle case che si sposano con le acque puoi osservare, ascoltare, sognare un tempo perduto, che torna quotidianamente, portato dalle onde.

Pentedattilo: alla ricerca della felicità.

Capita di scoprire con gli anni che la felicità non è qualcosa che si trova, che non ha niente di dovuto, che è a tutti gli effetti qualcosa che si crea. E’ un concetto semplice che tendiamo a dimenticare perchè non siamo “allenati” a gestirla, a maneggiarla e a contenerla.

Vi raccontiamo il nostro viaggio in Calabria, tre giorni in cui siamo stati travolti da un’immensa fortuna, abbiamo conosciuto i custodi di un tempo, quello lento che governa le giornate, le conversazioni ed elogia la semplicità.

Tutto parte da un video-documentario sulla storia di Rossella, unica abitante di un paese, Pentedattilo, sconosciuto persino ad alcuni calabresi. Inizia la mia ricerca sul borgo, che si trova a pochi km da Reggio Calabria. Ad avvolgerlo un’imponente montagna rocciosa a forma di cinque dita, da cui deriva il suo nome. Le case sono perfettamente incastonate tra le rocce e custodiscono la memoria del borgo e le leggende che vi ruotano attorno.

Per secoli teatro di violente lotte feudali e devastanti terremoti, questo piccolo centro negli anni Settanta fu dichiarato inagibile e i suoi abitanti si trasferirono poco più a valle. Da allora è un “borgo fantasma”, raggiungibile a piedi da una stretta stradina di pietra che si snoda lungo il costone di roccia, tra pale di fichi d’India e cespugli di macchia mediterranea. 

Chi arriva qui, fa una passeggiata veloce, scatta due foto, compra una calamita e poi va via. Ma c’è molto di più, basta semplicemente stare in silenzio e questo vi parlerà.

Entrando nel borgo si incontra subito la bottega artigiana di Giorgio e di sua moglie e mentre ci perdiamo nel loro mondo colorato Giorgio ci racconta storie, leggende del paese ma anche della sua vita, dei suoi ruoli come attore.

A Pentedattilo non ci sono ristoranti, trattorie o cose simili, ma esistono luoghi genuini che profumano e sussurrano.

Abbiamo finalmente incontrato Rossella, e siamo stati suoi ospiti su una terrazza affacciata nel blu. Quello che è successo nelle due ore successive, per noi è stato semplicemente un privilegio: pranzare all’aperto, con una coppia di Cuneo (lei originaria di Reggio Calabria), gustare prodotti genuini, tutto in ascolto delle storie di ognuno, in totale condivisione.

E poi Rossella, la custode più preziosa di Pentedattilo. La sua storia è una di quelle storie raccontate nei documentari, perchè quando negli anni ’80 Rossella ha deciso di lasciare Viterbo e trasferirsi in Calabria, in questo borgo sperduto e disabitato, poteva sembrare davvero da pazzi. Per lei no, per Rossella tutto è avvenuto in modo naturale. E da allora non l’ha più lasciato, restituendo al borgo di Pentedattilo un’anima. Lo ha fatto lei, lo ha fatto chi ha aperto le botteghe artigiane, chi ha iniziato a fare ospitalità diffusa.

Ci racconta che all’inizio erano in tre nel paese e le campagne erano rigogliose e incontaminate. Ogni mattina camminava costeggiando le fiumare in cerca di erbe officinali. Le abbondanti piogge invernali e primaverili consentivano di irrigare i campi e abbeverare gli animali anche d’estate. Si addormentava cullata dal canto della fiumara, mentre l’acqua scorreva incessante. Ma in questi ultimi due anni il territorio si sta desertificando e nella stagione secca il piccolo orto di Rossella va avanti a fatica, pur garantendole la sussistenza.

Dopo il pranzo abbiamo raggiunto Maka, un ragazzo maliano che aiuta Rossella nel lavoro dei campi e nell’accudimento delle sue venti capre. La luce del tramonto è divenuta irresistibile, come tutto il paesaggio circostante.

Rossella nella sua scelta di vita ha trovato la propria “capacità” di creare felicità ed essere stati suoi ospiti è stato veramente un dono, che non dimenticheremo.

Vedi Napoli e poi muori!

Napoli è verace, chiassosa, allegra, aperta, piena zeppa di genti, contradittoria, ma con un patrimonio culturale pazzesco. Abbiamo adorato sin da subito questa città e appena possiamo torniamo ammaliati dalla sua atmosfera.

Dopo una breve passeggiata, partiamo alla scoperta dei Quartieri Spagnoli, la zona a più alta densità abitativa della città. Durante il periodo della dominazione spagnola (parliamo del 1500) le truppe militari si stabilirono sulla collina che oggi ospita i Quartieri. La posizione era ideale, in primis perché vicina al Palazzo Reale, e poi perché, grazie alla pendenza della collina, i soldati riuscivano a sedare le rivolte popolari facendo colare olio bollente sulle strade.

Saliamo per via Toledo, la via in cui passeggiavano i signori spagnoli, oggi rinomato luogo dello shopping, che attrae sia napoletani che i turisti. La strada riflette le diverse identità di Napoli, essendo storiamente un punto di incontro tra quartieri popolari e zone nobili. Infatti mentre i signori passeggiavano su Via Toledo, i militari nei Quartieri Spagnoli passavano il loro tempo libero tra prostitute e gioco d’azzardo.

Alla fine del 1800, con l’arrivo del colera, Napoli venne ricostruita e gli edifici storici vennero sostituiti da quelli nuovi, sempre più alti, che portarono il quartiere all’espansione, sino alla collina del Vomero, inglobando giardini e conventi.

Tutto il quartiere è un mercato continuo, un susseguirsi di viuzze dal fascino decadente in cui la luce filtra con parsimonia tra i palazzoni che sfoggiano con orgoglio i panni stesi sui balconi. Vi sono botteghe di frutta, verdura, di generi coloniali, di salami e di formaggi, tutto in strada, al sole, alle nuvole e alla pioggia.

In questo luogo ti guida il profumo del cibo. Difficile scegliere dove fermarsi. Entriamo in un alimentare. Prima di noi un ragazzo compra una scamorza, “ vai vai, domani me li dai, non ti preoccupa’”. Nicole trova quel comportamento alquanto strano. Come fa ad essere sicuro che tornerà a pagare quella scamorza? Beh, ci sono ancora paesi in cui la parola è ancora importante, le spiego.

Scendiamo sino al mercato della Pignasecca, che prende il nome da una leggenda, secondo cui in questa zona c’era un fitto bosco di pini abitato da gazze ladre. Un giorno una gazza rubò l’anello al vescovo di Napoli, che era venuto nel bosco per ricongiungersi di nascosto con la sua perpetua. Il vescovo, per vendetta, scomunicò tutte le gazze. Dopo pochi giorni la pineta seccò e le gazze volarono via, lasciando quel luogo divenuto ormai arido e quindi conosciuto come “la Pignasecca”.

Raggiungiamo Via Vetriera, dove si trova l’antica fabbrica di cioccolato, “Gay Odin”. E’ la maestra di Giada che ci consiglia di gustare la foresta nera, che dopo un centinaio di anni continua ad essere il pezzo forte di questa storica ciccolateria.

Il lungomare di Napoli è il luogo ideale per questa prelibatezza. Una passeggiata da togliere il fiato: il sole che si riflette sull’acqua, il Vesuvio sullo sfondo, il profilo dell‘isola di Capri in lontananza.

Con un biglietto da € 1,30 saliamo su una terrazza panoramica. Si tratta dell’ascensore Monte Elia. Per scoprire una nuova Napoli, quella che non ti raccontano nelle guide turistiche.

Al calar del sole la città si tinge di una luce color senape, mentre il cielo inizia a mutare, tingendosi di sfumature color albicocca.

Vedi Napoli e poi muori!. Un detto che tuttora si perde tra gli scorci particolari e meravigliosi di Napoli, che spiega le emozione travolgenti che questa città è in grado di innescare.

Non hai bisogno di nient’altro.

Francavilla Fontana.

Secondo la leggenda, nel 1310, mentre il principe di Taranto Filippo d’Angiò guidarva una battuta di caccia, un uomo al suo seguito adocchiò un cervo intento ad abbeverarsi ad una fonte. Quando costui mirò con l’arco e scoccò la freccia, il cervo cambiò rotta scagliandosi contro. Incredulo, chiamò il principe e scoprirono, nascosta in un cespuglio, un’effige della Vergine con il bambino fra le braccia. L’avvenimento portò alla creazione di una piccola chiesetta per il culto della Vergine, oggi la Chiesa Madre.

Per favorire il popolamento della zona circostante, Filippo I dichiarò permesso di franchigia, da cui nacque il nome Villa Franca.

Tra cupole, palazzi storici e graziose piazze è veramente piacevole vagabondare nel centro storico di Francavilla Fontana e ritrovarsi all’interno del Castello imperiale.

Quello che ammiriamo oggi è frutto di numerosi rimaneggiamenti avvenuti nel corso dei secoli: il risultato è un palazzo metà fortezza e metà dimora gentilizia, circondato da maestose mura. La famiglia degli Imperiali, principi illuminati e mecenati molto conosciuti, rese la cittadina un importante centro e luogo d’incontro di culture e di arti.

Dall’atrio si acceda ad un’antica cappella di Santa Maria delle Grazie, dove si possono ammirare affreshi, ritornati alla luce dopo un lavoro di scrostamento da vecchi intonaci presenti sulle pareti e sul soffitto.

Dal maestoso portone entriamo e saliamo lungo la scalinata che porta al piano superiore dove è possibile ammirare il loggiato di stile barocco, ricamato con i motivi che raffigurano foglioline, rami di palma, grappoli d’uva, rosette e vitigni che si avvolgono sinuosamente.

I vani del piano nobile si dispongono intorno all’ambiente più importante di tutto l’edificio: la sala del camino, con una sontuosa volta coperta interamente da un affresco. Al centro il dio Apollo guida un carro alato tirato da quattro cavalli e un guppo di splendide Muse che danzano.

Il portone aperto di un palazzo storico, risalente al ‘700, ci invita ad entrare: è la sede di uno storico circolo. All’interno, il presidente ed un socio ci raccontano i fasti del palazzo, le vetrate che si aprivano per i balli, i giochi d’azzardo che allietavano le loro serate. Un circolo forse destinato a scomparire perché non si è modernizzato, ma che ha conservato i drappi, la luce, il calore di un tempo.

La graziosa cittadina, con un centro storico riqualificato, ha una bella zona pedonale, ricca di negozi alla moda e di pasticcerie, da cui escono vassoi danzanti per il pranzo della domenica e la mente torna ad un tempo in cui ogni nostra domenica era coccolata dai pasticcini di Verna.

Con il naso all’insù, mi lascio sorprendere dai baconi finemente decorati dei palazzi, dai portoni, dalle vecchie insegne che ancora campeggiano qua e là. Direi che avere il naso all’insù è uno status mentale e fisico che mi accompagna sempre 🙂

Vito ballava con le streghe. Pietrapertosa

Inizia così il nostro viaggio a Pietrapertosa con l’associazione Murex ed il racconto di Mimmo Sammartino, che fissa sulla carta i racconti popolari, quelle storie che un po’ tutti noi abbiamo ascoltato, perché non si perdano nel tempo.

Sono storie di “masciare”, donne che conoscevano l’arte della magia e della fascinazione, del mistero delle parole e dei segni, che si ungevano con l’olio fatato raccolto dalla cavità di un albero d’ulivo e lo custodivano in una pignatta di terracotta e poi attraversavano in volo la notte. Una favola, che racchiude il rigore antropologico, l’amore per le proprie radici, l’emozione poetica, ma anche il viaggio alla ricerca di sé.

Il percorso delle 7 pietre è un progetto che recupera un antico sentiero contadino di circa 2 km, che collega i Comuni di Pietrapertosa e Castelmezzano e si sviluppa su quote variabili. Il percorso trae ispirazione dal racconto di Mimmo e prevede alcune installazioni multimediali, non tutte funzionanti al nostro arrivo, purtroppo.

Da Pietrapertosa scendiamo lungo il percorso delle 7 pietre, con piccole pause dedite all’ascolto della storia, ai profumi, alla natura, ma anche ad un buon caffè e un dolce buonissimo con marmellata di limoni, tutto rigorosamente prodotto da Alessia e Nico.

L’arrivo a Castelmezzano è decisamente scenografico, da cartolina. Il paese compare improvvisamente adagiato alla parete rocciosa.

Il borgo medievale di Castelmezzano, che dall’alto guarda la sua gemella Pietrapertosa, fu fondato nel X secolo da un popolo in fuga. Secondo la leggenda, un semplice pastore scoprì tra i pascoli un luogo nascosto, protetto da rocce e ricco di sorgenti d’acqua e si trasferì qui con il suo gregge. Ben presto altri pastori fecero altrettanto, per proteggersi dalle incursioni dei Saraceni e dagli eserciti in guerra tra loro. Fu così che nel X d.c., sorse il nucleo del nuovo paese.

Tra le cose da vedere a Castelmezzano ci sono i resti del fortilizio Normanno-Svevo, con la sua gradinata stretta e ripida scavata nella roccia, che porta nel punto più alto, dove la vedetta della guarnigione militare sorvegliava la sottostante valle del Basento.

All’ombra del castello abbiamo fatto la pausa pranzo, condividendo una pizza rustica fatta con le erbe selvatiche e del vino aglianico, che non poteva mancare.

Il centro storico di Castelmezzano è un susseguirsi di piccole viuzze, palazzi nobiliari, chiesette, panorami mozzafiato e piccoli locali. Qui tutto sembra una bomboniera e per le strade si respira un’aria di festa e di leggerezza. E con la leggerezza riconquistata nella mente e nel corpo abbiamo intrapreso il viaggio di ritorno, più spediti rispetto a prima, ma più consapevoli.

La risalita a Pietrapertosa, il paese più alto della Basilicata, posto a 1.088 metri sul livello del mare, è stata veramente faticosa, ma ampiamente ricompensata. Questo piccolo gioiello ospita poco meno di 1.000 abitanti.

La parte più antica del borgo si trova alle pendici del Castello ed è nota come Arabat, dall’antico nome saraceno. Gli arabi, arrivarono a Pietrapertosa insieme al principe Bomar, si insediarono in queste casette in pietra che erano comunicanti fra loro attraverso aggrovigliati cunicoli, strade e scalini tipici, anch’essi scavati nella roccia. La particolarità di queste abitazioni è che sono costruite in modo da essere un tutt’uno con le pareti di roccia, tanto che spesso si possono notare case le cui pareti sono rappresentate dalla roccia stessa, o viceversa. Tutto è in armonia con la natura che lo circonda.

La roccia, la rupe, gli strapiombi solitari e il castello sono gli elementi dominanti a Pietrapertosa. Il borgo si sviluppa lungo un’unica strada principale dove si possono notare case signorili con portali di pregio, iscrizioni, decori, e simboli, che testimoniano le famiglie nobili di un tempo in città.

ll Castello Normanno-Svevo è un sistema fortificato che risale all’epoca romana e divenne importante all’epoca dei normanni nel IX secolo. È situato sulla cima della roccia su cui si aggrappa la parte alta dell’abitato, il quartiere dell’Arabata. Ma la cosa più bella è proprio il panorama spettacolare che si gode da qui sù. Una vista eccezionale sulla Valle del Basento fatta di boschi verdeggianti, limpidi torrenti, forme strane di roccia disegnate dal vento e dalle piogge.

 Questo è un luogo magico, ed allo stesso tempo colmo di storia e di fascino.

Una ragazza del paese, volontaria del Fai, ci ha deliziato con il racconto di una tradizione popolare vissuta da tutta la comunita: U’ Masc. che si ripete da decenni in occasione dei festeggiamenti dedicati a S. Antonio da Padova.

Una festa che si basa su un antico rito pagano di primavera per festeggiare la fertilità e la fecondità, una specie di cerimonia di nozze simboliche tra due alberi che un corteo di boscaioli va a tagliare nel bosco e poi porta in paese per unirli tra loro ed adornarli. Il matrimonio avviene tra un tronco di cerro e una cima. Qui, i massari attendono le prime luci dell’alba, momento in cui lo sposo e la sposa, trasportati da coppie di animali, si avviano nella lunga marcia, davanti al campanile del Convento di San Francesco. Lo spettacolo si svolge sotto gli occhi della folla che assiste con apprensione alla fase di innalzamento e alla spettacolare scalata dell’albero da parte di un “maggiaiolo”. Durante la festa vengono distribuiti i “biscotti degli sposi” preparati sapientemente a mano dalle donne del paese, durante la notte che precede.

Molti visitatori, arrivano a Pietrapertosa anche per provare l’esperienza adrenalinica del volo dell’angelo. Confesso che mi sono venute le vertigini solamente ad alzare gli occhi al cielo. Ma è spettacolare anche solo osservarlo.

Questo trekking, seppur faticoso(22.200 passi) conferma ciò che penso della Basilicata: terra stupenda, ancestrale, capace di offrire esperienze uniche, dove il tempo sembra essersi fermato, fissando nella pietra ciò che è stato.

A presto 🙂